giovedì 23 dicembre 2010

La crescita tramite Partnership

La crisi obbliga a ripensare a ciò che facciamo e ad inventare cose nuove: il modello produttivo del passato basato sul “piccolo è bello” è finito e ne serve uno nuovo. L'idea vincente potrebbe essere quello dell'azienda che per crescere si crea una rete di partnership. Si allea con altre aziende per suddividere e sfruttare meglio le attività di ricerca e sviluppo, per produrre su scala maggiore e commercializzare su canali altrimenti troppo costosi, il tutto con delle aggregazioni mirate “a valle”, lasciando la proprietà delle società ai rispettivi imprenditori. Si tratta di creare aziende con le economie di scala tipiche di dimensioni maggiori utilizzando al meglio le risorse attuali. Ma è possibile?

Il ciclo produttivo dello sviluppo industriale italiano

L'azienda di produzione italiana del boom economico era un'azienda di trasformazione: acquistava materie prime e ne traeva prodotti specifici per qualche utilizzo da vendere in tutto il mondo. L'ampio fido delle banche permetteva di finanziare la crescita anche a chi non aveva mezzi propri, un costo del lavoro mai troppo alto garantiva margini di redditività, le materie prime costavano poco, a parte l'energia; la svalutazione della Lira garantiva la competitività internazionale. Una piccola azienda con un prodotto di nicchia poteva affermarsi e vendere in Italia ed all'estero. Preistoria.

Il contesto internazionale attuale

Oggi si può creare una efficiente industria di prodotti funzionali in quasi ogni parte del mondo, per migliorare i prodotti servono capitali ma le nostre banche non possono erogare fidi come in passato, le materie prime sono rare rispetto alla domanda e costano care, il costo del lavoro in Italia è giusto che sia alto rispetto ai paesi del terzo mondo, l'euro non aiuta l'esportazione e se rimane stabile meglio per tutti. Da qui la crisi del ciclo produttivo attuale specialmente per l'impresa di famiglia.

Un ciclo produttivo che tende al declino

Una parte considerevole dell'industria italiana è costituita da aziende che producono prodotti che in passato erano di punta ma oggi sono divenuti riproducibili da qualunque concorrente e sono divenuti prodotti a basso valore aggiunto (dalle motofalciatrici ai piccoli elettrodomestici; dagli ascensori ai condizionatori); per contenere i costi molte aziende hanno delocalizzato la produzione e tagliato la ricerca; la delocalizzazione ha riguardato interi microsistemi di aziende, quelli che venivano chiamati distretti; basso valore aggiunto, bassa ricerca comportano un basso know-how (nessuno di noi ha un telefonino, un PC o un televisore a schermo piatto made in Italy); la perdita del know-how porta al declino industriale (gli inglesi hanno vissuto la cosa negli anni '70, adesso tocca a noi). Inutile puntellare con incentivi statali un sistema che non funziona, facciamone uno nuovo con aziende più grandi e più competitive.

Il modello dell'azienda a rete

L'azienda a rete è un modo di valorizzare l'imprenditoria individuale tipicamente italiana con la necessità di creare aziende grandi e competitive. La PMI deve avere una forte R&D per sviluppare prodotti sempre migliori e più innovativi, reparti di produzione all'avanguardia con alto valore aggiunto per unità prodotta tipico delle economia avanzate, una rete commerciale che permetta di vendere quello che si produce in ogni angolo del mondo, in modo da rientrare velocemente degli investimenti effettuati. Una struttura a rete consiste nell'aggregarsi con altre aziende su aree specifiche con una aggregazione a valle, lasciando la proprietà delle società ai rispettivi imprenditori.

La partnership nella R&D

Investire in R&D da soli è insostenibile per un'azienda di famiglia perché l'investimento minimo richiesto per produrre risultati applicabili è comunque troppo elevato in ormai qualsiasi settore. Meglio allora creare un centro di ricerca applicata separato e coinvolgere altre aziende che coinvestano con noi, col fine di sfruttare assieme i risultati della ricerca, definendo a priori chi sfrutterà che cosa e dove, tanto comunque noi non saremmo in grado di sfruttare tutto e ovunque. I partner di questa partnership nella R&D sono probabilmente da cercarsi a livello internazionale, anche percè è poi più facile non avere problemi successivi: un partner brasiliano ad esempio sfrutterà il nuovo prodotto in Sud America con l'impegno a non venderlo in Europa e così via. Più i prodotti sono di nicchia più è semplice identificare i potenziali partner a cui proporre la cosa. La R&D deve però rimanere in Italia ben controllata dall'azienda di famiglia.

La partnership nella produzione

Molti esperti pensano oggi che l'idea della delocalizzazione abbia fatto il suo tempo. Non si può rincorrere il paese maggiormente low-cost, ci sarà sempre un paese o un'area in via di sviluppo ove il costo del lavoro diventa inferiore e allora rispostiamo la produzione ogni anno? Abbiamo già visto come funziona il franchising industriale (vedi qui). Possiamo fare un passo ulteriore: creare stabilimenti in JV con altri produttori onde sfruttare subito quelle economie di scala che da soli non riusciremmo comunque a raggiungere. Non credo che le unità produttive debbano essere localizzate necessariamente in Italia, quello che conta è che la creazione del prodotto ed l'organizzazione produttiva sia gestita e controllata dall'azienda italiana in Italia.

La partnership nella commercializzazione

E' l'aspetto più difficile. L'azienda deve presidiare i mercati di sbocco e deve mantenere il contatto con il cliente finale. Siccome però dobbiamo sfruttare ogni prodotto commercializzandolo ovunque abbia senso farlo, i partner commerciali a livello locale sono indispensabili. La PMI italiana ha una forte tradizione commerciale, sa vendere in tutto il mondo ma la geografia è cambiata e oggi i paesi in crescita economica sono ben diversi da 10 anni fa.

Non mi sembra che tutte le PMI italiane abbiano aggiornato la propria rete, basti vedere quanto siano cambiati i flussi commerciali export dalla Germania rispetto a quelli dall'Italia. Servono partnership e JV con nuovi partner commerciali in nuovi paesi, senza indugiare oltre. Se qualche imprenditore ha dei dubbi, cerchi il valore del mercato dei suoi prodotti in India (paese non a caso dove operiamo ad introdurre le aziende italiane): rimarrà sbalordito.

giovedì 2 dicembre 2010

Che fine ha fatto il Private Equity?

Sono trascorsi pochi anni ma sembra un mondo diverso: i fondi di private Equity che si contendevano l'acquisizione delle migliori aziende, con una leva finanziaria esagerata ed a prezzi irraggiungibili sia per gli acquirenti industriali sia per il collocamento in Borsa, oggi sono alle prese con portafogli di partecipazioni svalutate rispetto al prezzo di acquisto e a volte con partecipazioni in vera crisi. Molti imprenditori che hanno aperto il capitale ad un partner finanziario di Private Equity si chiedono inoltre cosa sia meglio fare in questa situazione. Il che ci fa riflettere sul ruolo che il Private Equity potrà avere in futuro nello sviluppo delle PMI italiane. Vediamo in quali situazioni é utile ed in quali non lo é.


Il Private Equity é utile a traghettare la PMI verso la Borsa

L'azienda che ha per obiettivo la quotazione in Borsa (per ottenere visibilità, accesso a mercati finanziari internazionali, minor costo della raccolta di fondi) può utilizzare il Private Equity per accelerare il suo percorso. L'azienda può effettuare un calcolo di semplice convenienza: meglio quotarsi subito ai valori di oggi o far entrare un Partner finanziario e quotarsi tra qualche anno? Se i valori spuntabili oggi sono insoddisfacenti allora la spinta finanziaria e il supporto manageriale di un fondo creano valore che si monetizza poi con il collocamento e la quotazione, insomma un buon affare per tutti.


Il Private Equity é utile a traghettare la PMI verso la cessione dell'azienda

L'imprenditore che ha per obiettivo la cessione può utilizzare il Private Equity come passo intermedio, utile specialmente se l'azienda necessita di qualche operazione di sistemazione come ottimizzare aree d'affari diverse riallocando le risorse, gestire gli aspetti immobiliari, potenziare management e controllo, consolidarsi sul mercato. La cessione di alcune quote del capitale ad un fondo permetterà allora all'imprenditore di valorizzare al meglio le rimanenti quote di capitale che si venderanno invece in futuro. L'interesse dell'imprenditore e quello del fondo a valorizzare il capitale dell'azienda sono il medesimo.


Il Private Equity é utile a rilevare aziende troppo di nicchia

A volte cedere l'azienda non é facile non perché questa sia in crisi ma perché svolge un'attività molto specifica e di nicchia per cui é difficile ipotizzare sinergie e quindi interesse da parte di acquirenti industriali. In questo caso il Private Equity può acquisire l'intera azienda e creare valore col leverage o facendola crescere ulteriormente, anche senza cercare sinergie. E' insomma una valida way-out, perfetta per l'azienda familiare di nicchia.


Il Private Equity é utile a rilevare aziende consolidate e con alto cash flow

Analogamente il Private Equity é un ottimo acquirente di grandi aziende consolidate, leader di mercato, che generano un forte cash flow anche se non sono più in una fase di alta crescita, come alcune aziende appartenenti a gruppi anche statali. L'investitore probabilmente spingerà su mercati nuovi e riuscirà a sviluppare l'azienda in modo sufficiente a valorizzarla e rientrerà velocemente dei capitali investiti tramite il cash flow. Sarà comunque un acquirente più interessante rispetto ad altre forme di disinvestimento.


Il Private Equity non serve a far crescere le aziende

E' ormai chiaro che consideriamo il Private Equity un buon acquirente in alcuni casi, ma non qualora l'obiettivo sia far crescere la PMI per mantenerne il controllo. Certo, anche in questo caso un aumento di capitale effettuato da un partner istituzionale e finanziario può risultare utile ma oggi sono disponibili altre fonti finanziarie più coerenti con la strategia di sviluppo dell'azienda: dalla quotazione all'AIM ai prestiti partecipativi, dalle azioni di sviluppo al mezzanine finance, la gamma di prodotti a cavallo tra il debito finanziario e l'equity è oggi molto più vasta che in passato ed il Private Equity non é più lo strumento migliore.


Il Private Equity non serve se si vuole mantenere il controllo assoluto della gestione

Il limite del Private Equity in fondo é nel controllo societario: se l'imprenditore ha in mente che l'azienda é sua e, oggi e domani, sarà lui e nessun altro a prendere le decisioni, allora meglio non crearsi problemi con un Partner ingombrante che poò obbligare ad effettuare scelte che non si prenderebbero. In fondo siamo giunti ad una fase nella quale lo strumento del private Equity é ancora importante ma abbiamo forse imparato ad usarlo nel modo appropriato.