lunedì 22 giugno 2015

Unlevered Beta e Levered Beta nel settore immobiliare italiano


Nel calcolo del Cost of Equity, per determinare il levered beta di una società ho sempre utilizzato la formula di Damodaran (“Damodaran on Valuation” 1994) comunemente usata dalle maggiori investment bank, o perlomeno usata in JP Morgan dove ho lavorato. Negli ultimi anni sono stato sempre più impegnato in valutazioni di società nel settore immobiliare, in particolare uffici, grande distribuzione, logistica e alberghiero, per conto di SGR e consulting firm internazionali e mi sono chiesto se sto applicando la formula più appropriata per questi settori in Italia. Riassumo qui qualche mia idea su questo tema.

Premessa: il levered Beta secondo Damodaran

Il Beta di una società è una misura della correlazione dell'andamento del titolo azionario di una società all'andamento dell'indice di mercato e rappresenta quindi una misura della maggiore o minore rischiosità dell'effettuare un investimento in quella società rispetto ad effettuare un investimento di mercato. Distinguiamo ora l'Unlevered Beta (Uβ) dal Levered Beta (Lβ).

L'Unlevered Beta Uβ è quello riferito all'attività aziendale, indipendentemente dalla struttura finanziaria della società e dipende dall'attività svolta e dal Leverage Operativo. In base all'attività svolta, dovrebbero avere un Uβ più alto i settori a maggior ciclicità rispetto a quelli più stabili (quindi l'auto rispetto al food), i prodotti più sensibili al prezzo rispetto a quelli basic, le attività tecnologiche e a forte crescita potenziale rispetto a quelle più solide, stabili e tradizionali. L'Unlevered Beta Uβ dipende inoltre dal livello di Leverage Operativo, ovvero l'incidenza dei costi fissi rispetto al totale dei costi aziendali, ove maggiore è l'incidenza dei costi fissi maggiore è la rigidità aziendale e la difficoltà sia di ridurre i costi nelle fasi recessive che di aumentare la produzione nelle fasi espansive dell'economia.
Il Levered Beta Lβ è invece quello riferito al capitale della società (l'Equity) e dipende dal Uβ e dal livello di Leverage Finanziario della società. Il rapporto tra Uβ e Lβ si calcola allora in base al livello di Leverage Finanziario della società e dall'aliquota fiscale.
Il Leverage Finanziario è dato dal rapporto tra mezzi di terzi a debito e mezzi propri: più cresce il ricorso all'indebitamento e quindi il leverage, più dovrebbe crescere la rischiosità dell'investimento, quindi maggiore tende ad essere Lβ rispetto a Uβ. L'aliquota fiscale attutisce invece l'impatto negativo del Leverage Finanziario: se gli oneri finanziari sono fiscalmente deducibili ad una determinata aliquota fiscale, allora l'azienda con leverage beneficia di un tax shield dovuto alle minori imposte sul reddito che verranno pagate nel tempo all'aliquota fiscale vigente a causa della deducibilità degli oneri finanziari.

La formula di Damodaran cui accennavo è la seguente:
Lβ = Uβ + Uβ * (D/E) (1-T)
dove:
D: Debito ovvero valore di mercato del debito finanziario
E: Equity ovvero valore del capitale economico e non il valore contabile del patrimonio netto (problema facilmente risolvibile nel settore immobiliare se abbiamo una perizia degli immobili)
T: Tax rate ovvero aliquota fiscale vigente
In realtà la formula di base (“Debt Adjusted Approach”) è più complessa perché contempla anche il β del debito, che pure cresce al crescere del leverage finanziario, che però Damodaran scientemente ignora perché pensa che il rischio del business ricada sugli investitori di Equity. Ponendo pari a zero il β sul debito si riottiene infatti la formula vista sopra.

I limiti nel contesto specifico immobiliare italiano

Come dicevo, il tema è se e quanto tale formula sia appropriata nella valutazione di società italiane nel settore immobiliare, quali uffici, grande distribuzione, logistica e alberghiero e nelle operazioni di sviluppo.

Applicando ad esempio la formula ad una società immobiliare con un Uβ riferito ai suoi assets di 0,60, al variare del leverage finanziario e con l'aliquota fiscale fissa del 27,5% otteniamo:

Leverage
0.00
0.25
0.50
0.75
1.00
1.50
2.00
LB
0.6000
0.7088
0.8175
0.9263
1.0350
1.2525
1.4700

con un Cost of Equity che varia di conseguenza:

RFree
1.00%






MRP
5.00%






LB
0.6000
0.7088
0.8175
0.9263
1.0350
1.2525
1.4700
Cost Equity
4.00%
4.54%
5.09%
5.63%
6.18%
7.26%
8.35%

mentre all'aumentare dell'aliquota fiscale con leverage fisso pari a 0,50 (cioè valore del debito pari al valore dell'equity) otteniamo un LB che diminuisce:

tax rate
0.0%
20.0%
40.0%
50.0%
60.0%
70.0%
75.0%
LB
0.9000
0.8400
0.7800
0.7500
0.7200
0.6900
0.6800

Il risultato non sembra coerente col nostro mercato e non mi convince per i seguenti motivi.
Il nostro contesto specifico è stato caratterizzato dalla ricerca esasperata del leverage per ottenere un maggior return sull'equity. Negli ultimi anni, complice la crisi economica, tale leverage esasperato ha portato ad innumerevoli casi di insolvenza finiti in fallimento o congelati in ardite ristrutturazioni del debito. La normativa fiscale italiana limita inoltre il livello di deducibilità degli oneri finanziari per le società. Infine tra gli investitori cresce la presenza di fondi immobiliari, quotati e non, che sono sottoposti a norme fiscali particolari ed hanno un orizzonte temporale diverso da quello degli immobiliaristi.

L'esperienza porta quindi alle seguenti constatazioni: in questo settore il leverage finanziario aumenta sensibilmente il rischio d'impresa, in quanto in un periodo di crisi non vi sono modi di recuperare liquidità se non svendendo gli asset, quindi l'effetto leva porta ad un Lβ ben maggiore di Uβ; l'effetto fiscale, ovvero il beneficio della deducibilità degli oneri finanziari è mitigato dalla normativa e non è così rilevante come matematicamente si ottiene dalla formula. Infine, come bene sanno le banche, il β del debito non è affatto pari a zero e nelle società troppo indebitate i covenant richiesti dalle banche aumentano anche il β dell'equity.

Le soluzioni

Poco soddisfatto della formula base, ho provato ad applicare le altre formule che calcolano il Lβ partendo dall'Uβ: in letteratura ce ne sono almeno sei. I risultati, dal mio punto di vista, chiaramente empirico e focalizzato, non sono del tutto buoni. La formula che mi è sembrata forse più appropriata è quella del metodo “Pratictioners” (Ruback 1995), ovvero:
=Uβ * (1+ D/E)
ove:
= Beta degli asset

In pratica, rispetto alla formula di Damodaran, il metodo “Pratictioners” elimina l'effetto tax shield degli oneri finanziari e così amplifica l'effetto del leverage, che mi sembra coerente con le mie osservazioni di come si comporta il settore. La formula utilizza inoltre come Uβ il β riferito agli asset anziché della società pre leverage, il che mi sembra appropriato visto che la qualità dell'asset sottostante è l'aspetto critico per qualsiasi società immobiliare e possiamo determinarlo in base a caratteristiche quali la location, la qualità dell'intervento, la qualità dell'operatore e dei tenant, ecc. come ben sa chiunque operi nel settore.

Applicando questa formula ad un Uβ del portafoglio immobiliare di 0,60 al variare del leverage finanziario otteniamo:

Leverage
0.00
0.25
0.50
0.75
1.00
1.50
2.00
LB
0.6000
0.7500
0.9000
1.0500
1.2000
1.5000
1.8000

con un Cost of Equity che varia di conseguenza:

RFree
1.00%






MRP
5.00%






LB
0.6000
0.7500
0.9000
1.0500
1.2000
1.5000
1.8000
Cost Equity
4.00%
4.75%
5.50%
6.25%
7.00%
8.50%
10.00%


Il limite evidente in entrambi i metodi esposti, come riportato in dottrina, è l'effetto distorsivo che provocano quando si calcola il Terminal Value, in quanto il valore risultante è amplificato dall'effetto a crescere del leverage finanziario. Ciò è in contraddizione col fatto che le società immobiliari tendono a rimborsare i finanziamenti con le dismissioni di assets e con gli incassi delle locazioni ed il loro leverage finanziario tende quindi a diminuire nel tempo e non a crescere. Per questo, ove si adotti uno di queste due formule ed in particolare la seconda, sarà bene calcolare il Terminal Value senza ricorrere a capitalizzazioni perpetue.

sabato 13 giugno 2015

Sulle responsabilità civili e penali dell'attestatore dei piani di risanamento

Anno dopo anno, pochissime aziende stanno mantenendo le aspettative contenute nei piani di risanamento. Per gli advisor e per il management che li ha redatti e, soprattutto, per i dottori commercialisti che li hanno attestati, potrebbero sorgere responsabilità anche di tipo penale. Vediamo da un punto di vista aziendalistico di quali responsabilità si tratta e di come, almeno per il futuro, possiamo cautelarci.

LA FUNZIONE DELL'ESPERTO NELLE OPERAZIONI SOCIETARIE

Ancorché sia incaricato dall'imprenditore e non nominato dalla Volontaria Giurisdizione del Tribunale come il consulente tecnico d'ufficio, l'esperto ricopre comunque un ruolo pubblicistico, a tutela di interessi generali nel corretto esercizio di impresa e nel buon andamento dell'economia. E' un soggetto che oltre a detenere competenze tecniche deve mantenere l'estraneità ed imparzialità rispetto agli interessi in gioco a salvaguardia di interessi collettivi di tutti gli stakeholders e proprio per questo è prevista una forma di controllo di carattere pubblicistico.

CENNI SULLA RESPONSABILITÀ CIVILISTICA DELL'ESPERTO

L'attestatore è potenzialmente esposto al rischio professionale inerente i danni cagionati col proprio operato.

Nella pratica è difficile pensare ad una azione di responsabilità nei confronti dell'attestatore dei piani di risanamento intrapresa dal management della società o dai suoi soci, ovvero dai committenti che hanno scelto l'esperto attestatore e sono stati responsabili della gestione aziendale nel periodo in cui il piano doveva essere realizzato. In questo caso la responsabilità dell'esperto è di tipo contrattuale nei confronti del committente ed ha termine di prescrizione di dieci anni. Come detto la riterrei ipotesi piuttosto remota: qualche forma di tutela può inoltre essere già inserita dal professionista nel lettera di incarico.

L'azione di responsabilità nei confronti dell'attestatore dei piani di risanamento può assai più verosimilmente prospettarsi qualora i piani siano disattesi con danno a terzi, in particolare ai creditori della società. E' proprio la funzione di tutela dell'esperto nei confronti dei soggetti estranei alla compagine societaria che lo espone alla potenziale richiesta dei danni causati dall'aver attestato un piano che viene totalmente disatteso. L'eventuale azione ha natura extracontrattuale in quanto non c'è un incarico dei creditori all'esperto ed è soggetta ai termini di prescrizione di cinque anni. Se quindi la responsabilità dell'attestatore esiste e permane, il diritto al risarcimento del danno sorge per fatto illecito, ovvero la non veridicità dei dati su cui si fonda il piano e la mancanza dei presupposti per attestarne la fattibilità al tempo in cui il piano è stato attestato.

CENNI SULLA RESPONSABILITÀ PENALE

Per quanto riguarda la responsabilità penale del professionista attestatore, l'articolo 236 bis comma 1 LF come ben noto prevede la reclusione da 2 a 5 anni e la multa da 50.000 a 100.000 euro nel caso in cui la relazione o l'attestazione del professionista esponga informazioni false o ometta di riferire informazioni rilevanti. Tale rilevanza penale sussiste indipendentemente dal fatto che l'attestazione produca o meno un danno ai creditori, che rimane solamente presupposto dell'azione per responsabilità civile.
Ci soffermiamo quindi sui due aspetti a prevalente carattere aziendalistico: la falsità delle valutazioni espresse dall'esperto (esposizione di informazioni false) e/o la loro incompletezza (omissione di informazioni rilevanti).

Per quanto riguarda l'esposizione di informazioni false, l'attestatore risponde delle valutazioni che esprime in quanto siano fondate su premesse contenenti false attestazioni. All'esperto si chiede di vagliare attentamente tutte le informazioni che raccoglie e, qualora ravvisasse elementi di rischio riguardo le informazioni che gli vengono trasmesse, è suo compito approfondire l'analisi sino a quando sia certo che le informazioni che utilizzerà come base dell'attestazione del piano siano chiare, veritiere e complete.

Meno definita dal lato aziendalistico la problematica dell'omissione di informazioni rilevanti: l'aspetto di dolo da parte dell'attestatore risiede verosimilmente nell'aver ignorato informazioni e variabili chiave che influiscono sostanzialmente sulla realizzabilità del piano, informazioni e variabili che determinano rischi che, se conosciuti dal Tribunale e dai creditori, avrebbero verosimilmente portato ad un loro diverso giudizio sul piano stesso. Qui divengono fondamentali le capacità di carattere aziendalistico dell'attestatore: l'esperto deve avere assoluta padronanza dei fattori critici del settore industriale in cui opera l'azienda, deve cioè conoscere ed analizzare sia i drivers dei ricavi che tutti i rischi propri dell'attività, indipendentemente da quanto gli stessi drivers e rischi siano conosciuti ed esplicitati dall'imprenditore, dal management aziendale (di cui, visto lo stato in cui hanno portato l'azienda, forse non sono totalmente consapevoli) e dagli advisor che hanno redatto il piano per conto dell'imprenditore.

Un secondo livello riguarda l'attestazione della fattibilità del piano. Dato per scontato che i dati contabili storici possono essere veri o falsi mentre le previsioni economico finanziarie possono essere solamente attendibili o non verosimili, l'eventuale dolo dell'attestatore potrebbe risiedere nella mancanza di consequenzialità tra le informazioni ed il giudizio espresso in attestazione. Ciò potrebbe avvenire qualora il giudizio sulla fattibilità del piano non fosse coerente con il quadro informativo assunto alla base del piano stesso. I criteri in base al quale viene espresso il giudizio sulla fattibilità devono allora essere di comune accettazione (noi diremmo “secondo best practise”) come quelli espressi dai principi di attestazione del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti Irdec, dai principi di revisione per gli incarichi di attestazione previsti dall'Isae, e devono essere chiaramente esposti così da essere ripercorribili e verificabili.
Attesa la correttezza del quadro informativo e della metodologia assunta, la falsità delle valutazioni sussiste solamente in presenza di imperizia nel gestire i processi valutativi o nel caso di consapevole e dolosa divergenza da parte dell'attestatore nell'applicarli.
La responsabilità penale in ogni caso richiede un aspetto di dolo da parte dell'esperto, una collusione di fatto con gli interessi dell'imprenditore a danno tipicamente dei creditori.

ANCORA SULLE METODOLOGIE AZIENDALISTICHE DA SEGUIRE

Torno quindi su raccomandazioni di tipo metodologico: la raccolta e verifica che i dati aziendali siano completi e veritieri è un primo passo necessario ma ben lungi dall'essere considerato sufficiente per sollevare da rischi l'attestatore. A nostro parere si limitano i rischi di una eventuale azione di responsabilità se le previsioni espresse dall'esperto emergono in base ad un intero processo valutativo, come ad esempio il seguente:
  • l'analisi del piano deve avere un approccio verticale, che parte cioè dalle dimensioni e dal trend di sviluppo previsto per il settore industriale di appartenenza dell'azienda, verificato da fonti, studi e ricerche ufficiali e redatte da enti esterni all'azienda, che devono essere citate con precisione e possibilmente allegate al piano (banalmente, acquistare uno studio di settore e dedicare mezz'ora presso l'ufficio studi di Confindustria a cui fa capo il settore dell'azienda ci permette di conoscere aspetti e tendenze che l'imprenditore potrebbe non comunicarci);
  • tutte le metodologie utilizzate devono essere ben conosciute, applicate secondo best practise, ben illustrate facendo riferimento ai principi italiani o internazionali utilizzati (evitiamo di trovarci in un domani a giustificare un modello di valutazione che non abbia riferimenti o addirittura il non aver applicato alcun modello);
  • lo svolgimento dell'analisi deve seguire metodologie rigorose, tracciate e facilmente ripercorribili da chi legge il rapporto (come per l'impairment test, le conclusioni sono conseguenza precisa delle ipotesi ed il processo deve essere ripercorribile passo dopo passo da chi legge l'attestazione);
  • è indispensabile poi effettuare la “sensitivity analysis” del piano a diversi scenari, effettuare cioè una forma di stress test che permette di quantificare gli scostamenti dal piano base come conseguenza di una diversa evoluzione delle variabili chiave su cui detto piano è basato (anche qui, banalmente, stimiamo che succede al piano se il cambio euro/dollaro, o il costo dell'energia, o i tassi di interesse, o qualche input rilevante per quell'azienda non andrà come previsto dall'imprenditore nel piano base);
  • le considerazioni finali dell'attestatore devono essere infine perfettamente coerenti con le risultanze del processo di analisi che è stato seguito.


mercoledì 10 giugno 2015

Riprendere ad investire


Siamo nel 2015 e dopo sette anni di ... carestia si vede qualche timido segnale di possibile inversione di tendenza. La speranza è che la ripresa economica europea trainata da euro debole, petrolio a buon mercato e ampia disponibilità di finanza faccia da traino all'economia domestica italiana. Senza una ripresa dei redditi e dei consumi interni la ripresa in Italia sarà però circoscritta ad i settori ad alto export, comunque poca cosa rispetto al PIL complessivo del paese. Perché per ripartire bisogna avere prima investito nello sviluppo e in Italia sono anni che che nessuno, o quasi, investe più nulla. Parliamo allora di investimenti strategici come condizione base per lo sviluppo.

Crisi economica e credit crunch hanno indotto sia il settore privato che quello pubblico ad una politica di tagli: anno dopo anno il settore privato ha tagliato (in ordine non casuale) pubblicità, ricerca e sviluppo, investimenti, consulenze, sedi secondarie, strutture di staff, impianti e relativo personale, linee di prodotti non core, in pratica tutto. Il settore pubblico ha tagliato gli investimenti e le spese esternalizzate, ben attento a non effettuare alcuna spending review su aree ad alto impatto politico e sulle spese di casta. Gli investimenti che permettono lo sviluppo sono stati comunque ridotti in entrambi i casi e sono rimasti circoscritti nell'ambito di poche aziende di eccellenza in relativamente pochi settori industriali.

Il problema è che la mancanza di investimenti non ha solamente ridotto la capacità produttiva, peraltro già sensibilmente ridimensionata dalla chiusura di innumerevoli aziende, ma ha anche ridotto la capacità competitiva dell'industria italiana rispetto all'industria dei paesi nostri concorrenti. Non abbiamo solo perso posti di lavoro e capacità produttiva che sarà difficilissimo ripristinare, abbiamo anche perso tempo e capacità competitiva.

Per illustrare la problematica possiamo rifarci al noto articolo “Protect Strategic Expenditures” di Kaplan e Norton pubblicato sull'Harvard Business Review nel dicembre 2008. Con notevole lungimiranza e consapevoli del tremendo periodo di crisi che ci stava aspettando, gli autori suggerivano alle aziende di segregare contabilmente in un budget di spesa autonomo rispetto alla gestione ordinaria tutti gli investimenti di tipo strategico che non dovevano essere tagliati anche nel pieno della crisi, perché investimenti indispensabili alla sopravvivenza dell'azienda (noi diremmo indispensabili “alla continuità aziendale”).

In pratica suggerivano di distinguere gli investimenti a carattere produttivo, quelli comunemente chiamati Capital Expenditures o CapEx, dagli investimenti strategici, per i quali, da bravi americani, hanno subito inventato un acronimo, StratEx. I primi rimanevano sotto il controllo del management e potevano essere oggetto di spending review, i secondi dovevano essere gestiti da un manager che rispondeva direttamente al CEO ed al CDA ed avere un proprio budget separato e protetto. Negli StratEx rientrano sia investimenti di tipo tecnico che di R&D, nonché tutti i progetti suoi nuovi prodotti che l'azienda stava studiando per il futuro. Gli StratEx sono quindi investimenti soprattutto in competenze e non solo in macchinari. Ciò che va protetta è la capacità dell'azienda di avere prodotti e processi d'avanguardia e migliori rispetto alla concorrenza. Secondo gli autori, in tempi di crisi possiamo tagliare pure quello che riguarda il passato ma dobbiamo preservare ciò che sarà alla base del nostro futuro. In pratica Kaplan e Norton suggerivano di fare ciò che fa qualsiasi contadino, ma detto dai guru di Harvard suona meglio. Non a caso è esattamente il contrario rispetto alle scelte della politica economica Italiana ma questa è un'altra storia.

Atteso che in Italia in tempo di crisi poche aziende hanno investito per proteggere il proprio futuro, cosa possiamo fare adesso? Credo che possiamo solo metterci a correre.

A livello di Paese serve una politica economica chiara: investimenti massicci su pochi settori che possano fungere da volano per la ripartenza economica generale, come turismo e beni culturali, opere pubbliche (strade, scuole, idrosistema, porti ed aeroporti), reti informatiche, energia green da agricoltura.


A livello aziendale, bisogna sfruttare quel poco di finanza disponibile presso le banche e sul mercato finanziario internazionale per finanziare forti investimenti di StratEx sulla creazione di una nuova generazione di prodotti che colmi in fretta il gap di 8 anni di eutanasia industriale.