giovedì 23 dicembre 2010

La crescita tramite Partnership

La crisi obbliga a ripensare a ciò che facciamo e ad inventare cose nuove: il modello produttivo del passato basato sul “piccolo è bello” è finito e ne serve uno nuovo. L'idea vincente potrebbe essere quello dell'azienda che per crescere si crea una rete di partnership. Si allea con altre aziende per suddividere e sfruttare meglio le attività di ricerca e sviluppo, per produrre su scala maggiore e commercializzare su canali altrimenti troppo costosi, il tutto con delle aggregazioni mirate “a valle”, lasciando la proprietà delle società ai rispettivi imprenditori. Si tratta di creare aziende con le economie di scala tipiche di dimensioni maggiori utilizzando al meglio le risorse attuali. Ma è possibile?

Il ciclo produttivo dello sviluppo industriale italiano

L'azienda di produzione italiana del boom economico era un'azienda di trasformazione: acquistava materie prime e ne traeva prodotti specifici per qualche utilizzo da vendere in tutto il mondo. L'ampio fido delle banche permetteva di finanziare la crescita anche a chi non aveva mezzi propri, un costo del lavoro mai troppo alto garantiva margini di redditività, le materie prime costavano poco, a parte l'energia; la svalutazione della Lira garantiva la competitività internazionale. Una piccola azienda con un prodotto di nicchia poteva affermarsi e vendere in Italia ed all'estero. Preistoria.

Il contesto internazionale attuale

Oggi si può creare una efficiente industria di prodotti funzionali in quasi ogni parte del mondo, per migliorare i prodotti servono capitali ma le nostre banche non possono erogare fidi come in passato, le materie prime sono rare rispetto alla domanda e costano care, il costo del lavoro in Italia è giusto che sia alto rispetto ai paesi del terzo mondo, l'euro non aiuta l'esportazione e se rimane stabile meglio per tutti. Da qui la crisi del ciclo produttivo attuale specialmente per l'impresa di famiglia.

Un ciclo produttivo che tende al declino

Una parte considerevole dell'industria italiana è costituita da aziende che producono prodotti che in passato erano di punta ma oggi sono divenuti riproducibili da qualunque concorrente e sono divenuti prodotti a basso valore aggiunto (dalle motofalciatrici ai piccoli elettrodomestici; dagli ascensori ai condizionatori); per contenere i costi molte aziende hanno delocalizzato la produzione e tagliato la ricerca; la delocalizzazione ha riguardato interi microsistemi di aziende, quelli che venivano chiamati distretti; basso valore aggiunto, bassa ricerca comportano un basso know-how (nessuno di noi ha un telefonino, un PC o un televisore a schermo piatto made in Italy); la perdita del know-how porta al declino industriale (gli inglesi hanno vissuto la cosa negli anni '70, adesso tocca a noi). Inutile puntellare con incentivi statali un sistema che non funziona, facciamone uno nuovo con aziende più grandi e più competitive.

Il modello dell'azienda a rete

L'azienda a rete è un modo di valorizzare l'imprenditoria individuale tipicamente italiana con la necessità di creare aziende grandi e competitive. La PMI deve avere una forte R&D per sviluppare prodotti sempre migliori e più innovativi, reparti di produzione all'avanguardia con alto valore aggiunto per unità prodotta tipico delle economia avanzate, una rete commerciale che permetta di vendere quello che si produce in ogni angolo del mondo, in modo da rientrare velocemente degli investimenti effettuati. Una struttura a rete consiste nell'aggregarsi con altre aziende su aree specifiche con una aggregazione a valle, lasciando la proprietà delle società ai rispettivi imprenditori.

La partnership nella R&D

Investire in R&D da soli è insostenibile per un'azienda di famiglia perché l'investimento minimo richiesto per produrre risultati applicabili è comunque troppo elevato in ormai qualsiasi settore. Meglio allora creare un centro di ricerca applicata separato e coinvolgere altre aziende che coinvestano con noi, col fine di sfruttare assieme i risultati della ricerca, definendo a priori chi sfrutterà che cosa e dove, tanto comunque noi non saremmo in grado di sfruttare tutto e ovunque. I partner di questa partnership nella R&D sono probabilmente da cercarsi a livello internazionale, anche percè è poi più facile non avere problemi successivi: un partner brasiliano ad esempio sfrutterà il nuovo prodotto in Sud America con l'impegno a non venderlo in Europa e così via. Più i prodotti sono di nicchia più è semplice identificare i potenziali partner a cui proporre la cosa. La R&D deve però rimanere in Italia ben controllata dall'azienda di famiglia.

La partnership nella produzione

Molti esperti pensano oggi che l'idea della delocalizzazione abbia fatto il suo tempo. Non si può rincorrere il paese maggiormente low-cost, ci sarà sempre un paese o un'area in via di sviluppo ove il costo del lavoro diventa inferiore e allora rispostiamo la produzione ogni anno? Abbiamo già visto come funziona il franchising industriale (vedi qui). Possiamo fare un passo ulteriore: creare stabilimenti in JV con altri produttori onde sfruttare subito quelle economie di scala che da soli non riusciremmo comunque a raggiungere. Non credo che le unità produttive debbano essere localizzate necessariamente in Italia, quello che conta è che la creazione del prodotto ed l'organizzazione produttiva sia gestita e controllata dall'azienda italiana in Italia.

La partnership nella commercializzazione

E' l'aspetto più difficile. L'azienda deve presidiare i mercati di sbocco e deve mantenere il contatto con il cliente finale. Siccome però dobbiamo sfruttare ogni prodotto commercializzandolo ovunque abbia senso farlo, i partner commerciali a livello locale sono indispensabili. La PMI italiana ha una forte tradizione commerciale, sa vendere in tutto il mondo ma la geografia è cambiata e oggi i paesi in crescita economica sono ben diversi da 10 anni fa.

Non mi sembra che tutte le PMI italiane abbiano aggiornato la propria rete, basti vedere quanto siano cambiati i flussi commerciali export dalla Germania rispetto a quelli dall'Italia. Servono partnership e JV con nuovi partner commerciali in nuovi paesi, senza indugiare oltre. Se qualche imprenditore ha dei dubbi, cerchi il valore del mercato dei suoi prodotti in India (paese non a caso dove operiamo ad introdurre le aziende italiane): rimarrà sbalordito.

giovedì 2 dicembre 2010

Che fine ha fatto il Private Equity?

Sono trascorsi pochi anni ma sembra un mondo diverso: i fondi di private Equity che si contendevano l'acquisizione delle migliori aziende, con una leva finanziaria esagerata ed a prezzi irraggiungibili sia per gli acquirenti industriali sia per il collocamento in Borsa, oggi sono alle prese con portafogli di partecipazioni svalutate rispetto al prezzo di acquisto e a volte con partecipazioni in vera crisi. Molti imprenditori che hanno aperto il capitale ad un partner finanziario di Private Equity si chiedono inoltre cosa sia meglio fare in questa situazione. Il che ci fa riflettere sul ruolo che il Private Equity potrà avere in futuro nello sviluppo delle PMI italiane. Vediamo in quali situazioni é utile ed in quali non lo é.


Il Private Equity é utile a traghettare la PMI verso la Borsa

L'azienda che ha per obiettivo la quotazione in Borsa (per ottenere visibilità, accesso a mercati finanziari internazionali, minor costo della raccolta di fondi) può utilizzare il Private Equity per accelerare il suo percorso. L'azienda può effettuare un calcolo di semplice convenienza: meglio quotarsi subito ai valori di oggi o far entrare un Partner finanziario e quotarsi tra qualche anno? Se i valori spuntabili oggi sono insoddisfacenti allora la spinta finanziaria e il supporto manageriale di un fondo creano valore che si monetizza poi con il collocamento e la quotazione, insomma un buon affare per tutti.


Il Private Equity é utile a traghettare la PMI verso la cessione dell'azienda

L'imprenditore che ha per obiettivo la cessione può utilizzare il Private Equity come passo intermedio, utile specialmente se l'azienda necessita di qualche operazione di sistemazione come ottimizzare aree d'affari diverse riallocando le risorse, gestire gli aspetti immobiliari, potenziare management e controllo, consolidarsi sul mercato. La cessione di alcune quote del capitale ad un fondo permetterà allora all'imprenditore di valorizzare al meglio le rimanenti quote di capitale che si venderanno invece in futuro. L'interesse dell'imprenditore e quello del fondo a valorizzare il capitale dell'azienda sono il medesimo.


Il Private Equity é utile a rilevare aziende troppo di nicchia

A volte cedere l'azienda non é facile non perché questa sia in crisi ma perché svolge un'attività molto specifica e di nicchia per cui é difficile ipotizzare sinergie e quindi interesse da parte di acquirenti industriali. In questo caso il Private Equity può acquisire l'intera azienda e creare valore col leverage o facendola crescere ulteriormente, anche senza cercare sinergie. E' insomma una valida way-out, perfetta per l'azienda familiare di nicchia.


Il Private Equity é utile a rilevare aziende consolidate e con alto cash flow

Analogamente il Private Equity é un ottimo acquirente di grandi aziende consolidate, leader di mercato, che generano un forte cash flow anche se non sono più in una fase di alta crescita, come alcune aziende appartenenti a gruppi anche statali. L'investitore probabilmente spingerà su mercati nuovi e riuscirà a sviluppare l'azienda in modo sufficiente a valorizzarla e rientrerà velocemente dei capitali investiti tramite il cash flow. Sarà comunque un acquirente più interessante rispetto ad altre forme di disinvestimento.


Il Private Equity non serve a far crescere le aziende

E' ormai chiaro che consideriamo il Private Equity un buon acquirente in alcuni casi, ma non qualora l'obiettivo sia far crescere la PMI per mantenerne il controllo. Certo, anche in questo caso un aumento di capitale effettuato da un partner istituzionale e finanziario può risultare utile ma oggi sono disponibili altre fonti finanziarie più coerenti con la strategia di sviluppo dell'azienda: dalla quotazione all'AIM ai prestiti partecipativi, dalle azioni di sviluppo al mezzanine finance, la gamma di prodotti a cavallo tra il debito finanziario e l'equity è oggi molto più vasta che in passato ed il Private Equity non é più lo strumento migliore.


Il Private Equity non serve se si vuole mantenere il controllo assoluto della gestione

Il limite del Private Equity in fondo é nel controllo societario: se l'imprenditore ha in mente che l'azienda é sua e, oggi e domani, sarà lui e nessun altro a prendere le decisioni, allora meglio non crearsi problemi con un Partner ingombrante che poò obbligare ad effettuare scelte che non si prenderebbero. In fondo siamo giunti ad una fase nella quale lo strumento del private Equity é ancora importante ma abbiamo forse imparato ad usarlo nel modo appropriato.

mercoledì 10 novembre 2010

Le Azioni di Sviluppo per ricapitalizzare le PMI

Abstract

Dovrebbero prendere presto il via le emissioni di Azioni di Sviluppo, cioè di nuovi titoli azionari senza diritto di voto pensate per patrimonializzare con nuovi capitali le imprese di famiglia senza far perdere il controllo all'imprenditore. Vediamo cosa sono e come dovrebbero funzionare.

Perché hanno pensato alle Azioni di Sviluppo

Il codice civile attualmente prevede azioni ordinarie, azioni privilegiate e azioni di risparmio. Le azioni ordinarie sono titoli rappresentativi della proprietà con diritti di voto. Azioni privilegiate e di risparmio sono un po azioni di serie B, danno all'azionista un potere di voto e di controllo inferiore alle azioni ordinarie ed in cambio danno vantaggi in termini di maggiore remunerazione. L'insuccesso di entrambe é evidente in quanto solo pochi grandissimi gruppi hanno reputazione e qualità tali da poterle emettere trovando sottoscrittori disposti ad acquistarle. Ci sono poi le obbligazioni convertibili, che cercano di mediare la domanda di remunerazione annuale con l'aspettativa di una rivalutazione in conto capitale, strumenti poco più che sconosciuti agli investitori poco sofisticati.

Veniamo alle Azioni di Sviluppo. Questa quarta tipologia di azioni è stata appositamente creata per aziende di famiglia che vogliano aumentare la propria patrimonializzazione emettendo capitale senza incorrere nel rischio di diluire eccessivamente il controllo da parte del socio di maggioranza. Questo é infatti il motivo per il quale le aziende di famiglia italiane non effettuano aumenti di capitale e non quotano le proprie azioni in borsa: se la famiglia perde il 51% qualunque concorrente o investitore finanziario con risorse adeguate potrebbe comprarsi la società con un'OPA. Le azioni di sviluppo invece non danno diritto di voto, quindi non sono utili per scalare la società e prenderne il controllo, allora se ne possono emettere anche per quote rilevanti senza diluire il potere di controllo da parte della famiglia dell'imprenditore.

Caratteristiche delle Azioni di Sviluppo

Le Azioni di Sviluppo sono titoli azionari che possono essere emessi tramite un aumento di capitale offerto a terzi da società il cui capitale é detenuto al 50% più un' azione da una famiglia (o un azionista persona fisica o più persone fisiche legate da un rapporto di parentela).

Possono essere emesse in numero uguale alle azioni ordinarie (per il codice civile il valore delle azioni senza diritto di voto non può complessivamente superare la metà del capitale sociale).

Le Azioni di Sviluppo non danno il normale diritto al voto nell'assemblea dei soci ordinari, né c'è una assemblea a sé dei soci azionisti di sviluppo, insomma hanno un diritto di volto limitato alla revoca degli amministratori, oppure in caso di mancato raggiungimento dei risultati che sono stati fissati dalla società all’emissione di queste azioni ed in situazioni straordinarie. Le Azioni di Sviluppo in cambio hanno diritti patrimoniali privilegiati come maggiore remunerazione ed un livello prestabilito di pay out, erogano cioè un dividendo maggiore rispetto alle azioni ordinarie e quindi danno un rendimento più interessante per il risparmiatore cassettista.

Ma veniamo alle situazioni straordinarie: chi vuole acquisire il controllo della società ha l'obbligatorietà dell'OPA oltre che sulle azioni ordinarie anche su quelle di Sviluppo ed in caso di OPA anche le Azioni di Sviluppo hanno il potere di voto come le ordinarie. Inoltre se l'imprenditore perde il controllo, cioè il 50% più una azione visto prima, allora le Azioni di Sviluppo si “nobilitano” e si trasformano automaticamente in azioni ordinarie.

Insomma, il detentore delle Azioni di Sviluppo non vota durante la vita normale dell'azienda ma mantiene la possibilità di votare se l'imprenditore che gestisce l'azienda la gestisce male e serve un rinnovamento degli amministratori oppure se vuole venderla a qualcun altro. L'azionista di sviluppo e l'imprenditore fanno una specie di accordo: io azionista di sviluppo accetto di non disturbarti e ti rilascio delega piena alla gestione ma se gli amministratori non sono all'altezza o tu vendi la società allora voglio contare come gli altri.

Funzioneranno?

Le Azioni di Sviluppo sono una opportunità formidabile per le aziende di famiglia sufficientemente grandi ed affermate da potersi rivolgere alla borsa per ricapitalizzarsi. La società emette nuove azioni e si dota di mezzi finanziari freschi, tanto preziosi oggi per effettuare investimenti ed uscire con slancio dalla crisi e nello stesso tempo la famiglia non perde il controllo anche effettuando una OPS per un valore pari a quello dell'azienda! Formidabile ma ...

Il problema é che “there is no free lunch”. Chi sono i sottoscrittori delle OPS? A parte il caso Enel, a comprare azioni sono gli investitori istituzionali, cioè i fondi di investimento, i fondi pensione, eccetera. Siamo sicuri che questo sia uno strumento attraente? Ho dei forti dubbi: l'Azione di Sviluppo quoterà sempre a sconto rispetto all'ordinaria, come succede ovunque per le azioni a potere di voto limitato. Se l'azienda va bene l'investitore avrà un apprezzamento in conto capitale inferiore a quello dell'azione ordinaria, il che non é incentivante. Se poi l'azienda va male l'investitore può sì intervenire per cambiare gli amministratori, ma ha comunque un potere di disturbo limitato, il che é ancora peggio. Spero di sbagliarmi, perché di questi strumenti di ricapitalizzazione le nostre aziende ne hanno proprio bisogno, ma penso che gli strumenti finanziari funzionino come tutti i prodotti del mondo: come tutti i prodotti del mondo vanno pensati in funzione dei bisogni dei clienti che li comprano e non in funzione dei bisogni delle aziende che li vorrebbero vendere.

mercoledì 3 novembre 2010

Energy Program per ottimizzare il capitale circolante

Il nostro Energy Program per ottimizzare il capitale circolante é un intervento di consulenza finanziaria d'impresa ideato per la piccola e media impresa con problemi di liquidità. Serve a trovare aree di miglioramento nella gestione del capitale circolante ed a liberare risorse finanziarie “nascoste” tra crediti, magazzino e fornitori, risorse che possono essere impiegate per ridurre i debiti e per rilanciare l'impresa.

Il nostro Energy Program per ottimizzare il capitale circolante é un intervento incisivo, molto pragmatico, che produce risultati già nel breve termine. Si sviluppa con l'analisi del ciclo attivo e passivo, individuanto in ogni area gli interventi di miglioramento a maggiore impatto, simulando i vantaggi per l'impresa di ogni intervento. Ma non solo: affianchiamo la PMI anche nell'implementare tutte le azioni che raccomandiamo, così da essere coinvolti nel raggiungimento dei risultati.

Il nostro Energy Program per ottimizzare il capitale circolante é uno strumento agile, secco, estremamente utile e pragmatico, utile all'imprenditore della PMI che vuole ottenere risultati.

Il nostro Energy Program per ottimizzare il capitale circolante viene offerto ad un prezzo estremamente contenuto, da valutarsi dopo un assessment gratuito (solo spese viaggio) per ogni società oggetto dell'analisi.

Se pensate che la vostra attività possa beneficiare del nostro Energy Program, mandate una mail a info@eqsstudio.com.

mercoledì 22 settembre 2010

Creare capitale intellettuale per competere

Il Capitale Intellettuale della PMI

Quando affrontiamo un turnaround il problema più urgente é fare cassa, il problema più importante é trovare l'elemento di differenziazione competitiva dell'impresa. Il principale elemento di differenziazione competitiva di una PMI italiana nei confronti dei suoi competitors internazionali é il suo capitale intellettuale: il capitale intellettuale (IC, Intellectual Capital) non é infatti altro che l'intuito dell'imprenditore e la capacità della PMI di creare qualcosa in più rispetto ai concorrenti pur disponendo di un capitale economico e finanziario pari o addirittura inferiore. La capacità di competere oggi non é tanto nel disporre di macchinari di produzione d'avanguardia (li hanno anche in Turchia e in Cina), di strutture produttive ben organizzate (di ingegneri di processo ce ne sono proporzionalmente molti di più in India che in Italia) e nell'impegnarsi a creare nuovi prodotti (comunque copiati dopo 15 giorni), ma nel fare tutto questo con una migliore qualità, qualità che deriva da migliori capacità intellettuali.

Il capitale intellettuale della PMI diventa di conseguenza il fattore chiave del turnaround, quello che crea valore aggiunto, cioé la possibilità di far pagare al cliente il proprio prodotto un pò di più rispetto al prodotto low-cost dei competitor.

Nell'articolo dedicato a "Tutelare il valore degli asset intangibili nell'azienda in crisi" abbiamo visto quali sono gli elementi più rilevanti per la PMI italiana nelle tre dimensioni del capitale umano, del capitale strutturale e del capitale relazionale. Vediamo adesso alcuni aspetti di criticità e di differenziazione per il piccolo imprenditore, ovvero alcuni di quegli aspetti che fanno il successo o il declino di una PMI e che diventano essenziali nelle situazioni di turnaround.


La capacità di identificare le risorse intangibili che contano

Per una PMI é difficile creare valore aggiunto col proprio capitale intellettuale in modo generico: gli esperti stimano che gli elementi di capitale intellettuale (detti anche i "fenomeni") che possono creare valore siano un centinaio (c'é chi ne elenca di più, chi meno, comunque sempre troppi). Per un piccolo imprenditore occorre ogni volta capire quali sono veramente le variabili che contano e focalizzarsi solo su queste. Un esempio simpatico ce lo fornisce un famoso (e sempre citato) studioso della materia (T.A. Steward): "..un ristorante a tre stelle ha successo soprattutto grazie al capitale umano racchiuso nel suo chef; una catena di fast food si affida ala capitale strutturale delle sue ricette e e dei suoi procedimenti; un ristorantino locale ha successo grazie al capitale relazionale della cameriera che vi chiama per nome e sa come vi piace il caffè..". Ogni PMI deve capire quali sono gli elementi chiave su cui dovrà fare leva d'ora in poi per differenziarsi dai concorrenti e potere avere successo.


L'importanza di saper misurare le proprie risorse intangibili

Una volta identificate le proprie 10 variabili chiave, occorre trovare un modo per misurarle, in modo da capire se, anno dopo anno, le stiamo coltivando adeguatamente e se danno i risultati che ci attendiamo. I metodi di misurazione devono essere semplici ed efficaci e devono poter essere documentabili in modo obiettivo: ad esempio se riteniamo la capacità di introdurre piccoli e costanti miglioramenti ai nostri prodotti e servizi sia un elemento che crea valore aggiunto, possiamo allora contare quanti miglioramente abbiamo introdotto ogni mese e quanti di questi sono stati suggeriti da chi produce, da chi vende e da chi studia il prodotto. La misurazione é fondamentale: se un reparto non suggerisce alcunchè abbiamo un segnale forte sul quale dobbiamo intervenire per capire il perchè e per trovare correttivi. Parafrasando una consolidata affermazione diciamo che possiamo gestire solo quello che sappiamo misurare.


Curare il Branding

Nella guerra dei prezzi, chi fa lo sconto più alto vende ma ne paga il prezzo. Tutti sappiamo che riesce a far pagare un prezzo più alto il prodotto di marca: i marchi permettono infatti un premium price, cioé di vendere un prodotto ad un prezzo superiore, a premio, rispetto ad un analogo prodotto unbranded. Per una PMI investire per affermare il proprio marchio può sembrare uno spreco di risorse, ma il marchio é capitale intellettuale che trasmette valore. Lo sanno bene i produttori dei paesi low-cost, disperatamente alla ricerca di modi per nascondere il proprio non-marchio (avete fatto caso che il brand dei produttori cinesi non appare mai?).


La capacità di attrarre talenti ed il rischio di perderli

Per migliorare il capitale intellettuale occorre disporre di persone di qualità, che lavorano assieme con entusiasmo, perché é evidente che le buone idee non possono provenire solo dall'imprenditore. La PMI italiana di stampo familiare ha spesso dei limiti nel saper attrarre (e nel voler attrarre) personale di qualità, specialmente giovani e donne. Molti imprenditori (ma anche molte imprenditrici!) si trovano a disagio nel dialogare con un dipendente che si mostra più sveglio di loro, specialmente se é appunto un giovane o una donna. Ma non c'é alternativa: la PMI non ha le risorse per arruolare grandi manager e grandi tecnici con grandi stipendi, i talenti deve farseli in casa e per creare conoscenza serve gente tosta ed entusiasta, bisogna saperla attrarre e saperla tenere.


L'innovazione continua

Le aziende competono solo se innovano. Ma come si fa ad innovare? Credo che non dipenda dall'avere tecnici o esperti di marketing che pensano a cose nuove in un ufficio ad hoc, ma dipende dalla voglia di mettere in discussione tutto ciò che si fa in base a ciò che viene apprezzato (e remunerato) dai clienti. Un noto manager di una nota casa automobilistica, di fronte ad un nuovo modello palesemente innovativo disse: non mi piace. Difficile potergli dire: guardi che non é lei che deve comprarla! Insomma l'ostacolo all'innovazione a volte é dentro di noi, rimuoviamolo!

Il Business Plan da presentare alle banche

Negli ultimi mesi ho avuto occasione di presentare dei business plan (dai semplici business plan di sviluppo a veri e propri piani di risanamento ex art 67 LF) a delle banche. Eccovi allora qualche considerazione “fuori onda”.


La banca legge il Business Plan?

La maggior parte funzionari di banca non lo legge, lo sfoglia e poi ti chiede di fare il riassunto. Non legge con attenzione neppure l'Executive Summary e poco sembra importargli di che fine fanno i soldi della banca. Allora é inutile perderci troppo tempo, basta fare un buon “copia e incolla” da altri plan? Purtroppo no, ogni volta capita di trovare un funzionario zelante (massimo due) che non solo lo legge, ma é anche in grado di capirlo e discuterlo con competenza. Insomma capita sempre di trovare un interlocutore capace. Il che ci obbliga a redarre un Business Plan industriale vero ed un Piano di Risanamento credibile.


La gabbia del rating interno

Tutti i funzionari, dal gestore locale al direttore di area al responsabile corporate, sono “ingabbiati” dal rating interno. Intendiamoci: oggi le banche sanno leggere ed interpretare l'andamento aziendale come era impensabile solo pochi anni fa. I sistemi di rating che utilizzano sono ormai collaudati e perfezionati, insomma sono più che decenti. Se col business plan pensate quindi di fare cambiare idea ad una banca riguardo lo stato più o meno disastrato in cui versa l'azienda del vostro cliente o sperate di far capire le potenzialità dell'azienda a medio termine, ricordatevi che comunque il rating non si discute.


Conoscere la normativa

La banca é fatta da burocrati: se non lo sono, lo diventano. In effetti i vincoli normativi che devono rispettare sono notevoli. Oggi una azienda é tecnicamente in default se ha 180 giorni di ritardo nell'onorare le proprie scadenze verso la banca. Se operiamo entro questo limite possiamo proporre e percorrere determinate alternative, se siamo oltre ne possiamo percorrere solamente altre. A volte più che un esperto serve un interprete, ma per la PMI conoscere la gabbia normativa dentro la quale si opera e conoscerne gli strumenti (come l'Avviso comune 3 agosto 2009, la ricontrattazione e la rinegoziazione) diventa indispensabile per gestire un qualsivoglia dialogo con le banche.


Quando le banche ci stanno a sentire?

Quando il giudizio del rating é pessimo (cioé quasi sempre, visto che di questo ci occupiamo) la disponibilità al dialogo da parte della banca è quantomeno ... limitata: il dialogo e l'attenzione al piano di risanamento si avvia solo quando l'azienda non paga nè capitale nè interessi e non movimenta un solo euro sul conto corrente. Se volete farvi ascoltare portate i flussi finanziari altrove e fate esplodere il problema. Dopo tutto é sempre valida la vecchia regola che dice che se hai un debito modesto il problema é tuo e se lo hai grande il problema é della banca.


Cosa cercano le banche nel Business Plan?

Quello che le banche cercano é qualche informazione nuova che giustifichi il manterere in vita l'azienda ed accettare il Piano di risanamento anzichè mettere una riga sul credito e farla finita, che poi sarebbe la cosa più saggia. Il piano di risanamento è vero solo se identifica nuovi clienti da nuovi mercati, nuovi prodotti low-cost, una organizzazione diversa, la cessione di asset, qualche evidente fattore di discontinuità con il passato e col presente, anche nelle persone, come un nuovo direttore generale. Deve essere qualcosa di molto specifico che le banche possano identificare, misurare e monitorare nei prossimi mesi. Il Piano di risanamento si basa cioé sul cambiamento di qualche variabile chiave.


Le banche si aspettano il peggio, accontentiamole

Le banche sanno che il ciclo delle sofferenze non coincide col ciclo della crisi economica, ma é in ritardo di almeno sei mesi. L'azienda in crisi riesce a non palesare la sua situazione all'esterno per un certo periodo (ad esempio non paga i fornitori e mantiene una situazione finanziaria apparentemente equilibrata). Poi però non ce la fa più e la posizione finanziaria sul conto corrente della banca sprofonda. Per questo le banche si aspettano maggiori sofferenze nel 2010, anno di tenue ripresa economica, rispetto al 2009, anno invece di conclamata crisi sistemica. E' verosimile che il piano di risanamento veda un conto economico aziendale in miglioramento con però flussi di cassa in tensione ancora per un certo tempo.


Le banche vogliono che i crediti siano performing, il come non interessa

Per poter mantenere i crediti verso i clienti in difficoltà nel proprio bilancio senza operare costosissime svalutazioni, le banche hanno bisogno che questi crediti generino un minimo di redditività, siano performing. Per quanto la cosa non cessi di stupirci, il “come” questo possa avvenire alle banche non interessa. Hanno chiesto di prevedere nel piano di risanamento di remunerare i debiti bancari con un ammontare doppio rispetto a quanto l'azienda potrà ragionevolvente disporre: cosa tecnicamente impossibile per chi non sia lo stato italiano, che paga gli interessi facendo nuovi debiti. Insomma possono chiedere di prevedere ed ufficializzare un piano che nessuno si sogna di poter realizzare. Conclusione: va bene così. Dopo tutto il conto lo pagano le banche, che scelgano pure il menù.

Vi serve un aiuto per preparare un Business Plan di successo? Scriveteci alla mail: info@eqst.it!


martedì 21 settembre 2010

Il canone di affitto dell'azienda alberghiera

La separazione ormai abituale tra proprietà immobiliare e gestione di un albergo rende sempre più attuali le problematiche inerenti la locazione, prima di tutto sui metodi di valutazione del canone. Vediamo qualche considerazione adesso che i tassi di interesse a lungo termine tornano a crescere.

Cos'é il canone di locazione di un albergo?
L'albergo non é un appartamento, il canone é una questione molto delicata. Per il proprietario il canone é il rendimento atteso sul capitale immobilizzato, per il conduttore é un costo da contenere entro un massimo del 20% dei ricavi della gestione. Vi sono oggi diversi schemi contrattuali che parametrano il canone alla redditività della gestione. Partiamo però analizzando lo schema più semplice della locazione.
Le attuali aspettative di rendimento del proprietario dell'immobile
Per determinare il canone di locazione desiderato, il proprietario dell'immobile deve stimare il valore di mercato della struttura come il controvalore ottenibile in una cessione e reinvestibile in altra attività finanziaria. Calcola quindi il rendimento atteso sul valore di mercato del suo immobile ed ottiene il canone desiderato. Atteso che il rendimento oggi ottenibile sui BTP a lungo termine é nell'ordine del 4,5% annuo , é lecita l'aspettativa di ottenere un canone di locazione che sia perlomeno pari a tale rendimento base più un premio per il maggior rischio dell'investimento immobiliare rispetto all'investimento in titoli si stato, per la minore liquidabilità dell'immobile e per il rischio della controparte specifica. Vediamoli in dettaglio.
Il premio per il rischio Immobiliare
Il rendimento per il rischio immobiliare varia in funzione della qualità dell'ubicazione dell'immobile: é ovviamente molto basso per immobili siti nel centro di Milano e di Roma, come per immobili in una buona posizione a Venezia, é maggiore per immobili siti in provincia, é obiettivamente alto per immobili ubicati là dove nessuno andrebbe ad abitare, come vicino agli aeroporti ed alle autostrade, ancorchè posti ottimi per svolgere l'attività alberghiera. Il range va da 0,5% a 2,5% di extra rendimento annuo rispetto ai titoli di stato.
Il premio di liquidità
C'é poi un premio per l'illiquidità dovuto al fatto che, una volta locato con un contratto a 18 anni, la cessione dell'immobile diventa ovviamente più difficile, in quanto l'acquisto dell'immoble locato a terzi può interessare solo ad un investitore prettamente finanziario con una visione e una disponibilità a lungo termine ma diventa un albergo invendibile ad un albergatore, visto che non può utilizzarlo. Il premio di illiquidità non é quindi affatto da trascurare: é evidente che a parità di rapporto rischio / rendimento una asset class facilmente liquidabile é da preferirsi, specialmente in tempi di turbolenza finanziaria: diciamo che oggi il mercato applica liquidity premium anche di 1,5%-2,0%.
Rispetto al periodo pre-crisi abbiamo due fenomeni contrastanti: il premio per il rischio immobiliare non é cresciuto, in quanto l'investimento immobiliare é comunque considerato difensivo, mentre la ricerca della liquidità da parte degli investitori ha fatto crescere in modo significativo il liquidity premium.
Il premio per il rischio controparte
Da ultimo, ma ovviamente non meno rilevante, é il premio per il rischio controparte. Affittare ad un operatore serio, esperto ed affidabile, legato marchi ed a catene di prenotazione internazionali può fornire garanzie importanti per il proprietario. Se mancano questi requisiti allora il proprietario chiederà un canone di locazione maggiore che tiene conto di un rischio di morosità del conduttore. E' evidente che l'attuale crisi valorizza la credibilità ed affidabilità dei conduttori più professionali e tende ad ampliare il premio richiesto dal proprietario per il rischio controparte.
Come trattare l'inflazione?
Nell'attuale scenario deflattivo parlare di inflazione può sembrare fuori luogo. Non é così: se dobbiamo concludere un contratto di locazione a 18 anni é evidente che in questo notevole lasso di tempo avremo presumibilmente anni ad inflazione bassa ed anni ad inflazione più elevata. Il canone si rivaluta, ma anche il valore immobiliare potrebbe crescere. La considerazione più diffusa sul mercato é che i valori immobiliari crescano più dell'inflazione. Se fosse così il proprietario potrebbe locare ad un rendimento biù basso contando di recuperare il mancato rendimento con la rivalutazione dell'immobile nel tempo. Sappiamo che questo é accaduto nei periodi ad alta inflazione ed in concomitanza dell'introduzione dell'euro ma oggi vi sono due considerazioni da fare: l'apprezzamento immobiliare negli ultimi 60 anni ha seguito dei cicli che indicano una rivalutazione pari all'inflazione più lo 0,6% annuo. L'apprezzamento immobiliare del real estate alberghiero é però inferiore a quello degli immobili ad uso abitazione della medesima zona. Questo probabilmente a causa del più limitato mercato delle compravendite e degli ingenti costi di ammodernamento e manutenzione straordinaria, specialmente nella parte impiantistica, tipici degli immobili a destinazione alberghiera.
Qual'é il reddito atteso?
Stabilito un reddito atteso coerente con i tassi di rendimento su attività finanziarie prive di rischio e di pari durata, l'ubicazione dell'immobile, la qualità della controparte, rimane però il dubbio su quale sia il reddito da capitalizzare. Non può essere il canone di locazione, ma occorre dedurre l'ICI e la manutenzione straordinaria, insomma deve essere un reddito pre imposte ma effettivo, altimenti é un ricavo, non un reddito.
Il canone per il conduttore
Come abbiamo detto, il canone per il conduttore é un costo da contenere entro un massimo del 20% dei ricavi della gestione, probabilmente anche al di sotto se la struttura ha un tasso di occupazione poco omogeneo durante l'anno e quindi ha difficoltà ad ottimizzare i carichi di lavoro. La crisi del settore degli ultimi due anni ha inoltre reso ancora più difficile ottenere una redditività gestionale soddisfacente e congrua rispetto al canone.
In conclusione
Valore immobiliare, tasso di rendimento atteso e canone di locazione sono grandezze economiche strettamente correlate tra loro, due di queste variabili determinano automaticamente la terza. Se scopriamo che sono in disequilibrio allora qualcosa non va e presto ce ne dovremo fare una ragione.


venerdì 21 maggio 2010

Il Franchising Industriale come Business Model per la PMI nel mondo globalizzato

La delocalizzazione ed i Business Model del passato

Ideare un buon prodotto, produrlo in Italia e venderlo nel mondo è ancora possibile per i prodotti ad elevato valore aggiunto (dai gioielli alla biotech, dove tecnologia o design non siano duplicabili) ma, per buona parte degli altri prodotti, è un Business Model del passato, che non funziona più. Invece di rimanere legati al territorio le grandi aziende infatti delocalizzano nel mondo sia la ricerca che la produzione; le medie aziende cercano di mantenere il know-how dove sono sorte e delocalizzano solo la produzione; le PMI spesso non sanno proprio che fare, imitano inutilmente le grandi con la delocalizzazione produttiva e spesso cessano di essere competitive. Quanto alla capacità di vendere su base mondiale ormai è indispensabile avere reti commerciali ad hoc capaci di privilegiare il proprio prodotto, altrimenti, se ci si fa intermediare da terzi, si fa la fine dei produttori agricoli, che vendono la frutta a 12 cent al chilo per poi vederla nei banconi del supermercato a 1 euro e 70. Cosa può fare allora la PMI? C'é un Business Model diverso?


Il Franchising Industriale

Una possibile via di uscita per la PMI è prendere spunto dal Franchising Industriale, farlo proprio ed andare oltre. Sappiamo cos'é il franchising dei negozi di abbigliamento, ma cos'é il Franchising Industriale? Nel Franchising industriale franchisor e franchisee, sono due imprese industriali: il franchisor è il proprietario delle tecnologie e del prodotto e concede al franchisee la licenza dei brevetti di fabbricazione ed i marchi, gli trasmette la sua tecnologia, gli assicura un'assistenza tecnica costante. Il franchisee fabbrica e commercializza in una determinata area geografica le merci prodotte dal proprio stabilimento applicando il know-how e le tecniche di vendita dell'affiliante (riadattato dall'Annuario del Franchising). Il vantaggio per il franchisee è ottenere un nuovo prodotto “chavi in mano” col quale arricchire la propria gamma; per il franchisor è raggiungere mercati altrimenti persi.


Un Network Business Model

Vediamo allora come una PMI può partire dal Franchising Industriale e creare un nuovo Network Business Model con un caso concreto.

Occupiamoci di una PMI italiana che ha un prodotto proprio, ad esempio nel campo dei prodotti plastici con stampaggio rotazionale (ma se produce punte per trapano o lacci per scarpe è la stessa cosa): la PMI lavora a stretto contatto coi clienti, capisce cosa e come deve fornire, crea un prodotto, ne cura le caratteristiche tecniche, il design, gli accessori e gli allestimenti per i diversi utilizzatori. Inoltre sa anche come produrlo, probabilmente utilizza tecnologie e macchinari anche d'avanguardia e giorno dopo giorno ha sviluppato le competenze di processo tipiche di chi le cose le fa per davvero. E' però una PMI italiana e si rende presto conto che per vendere nel mondo globalizzato il tempo del venditore con la valigetta, il commesso viaggiatore degli anni 60 in stile Celestino Lometto di Busi, sono passati.

Anziché rincorrere le mode della delocalizzazione (Romania, Repubblica Ceka, Turchia, ecc.) la nostra PMI prova allora ad esplorare un “network business model” derivato dal franchising industriale. Identifica cioé una serie di aziende Partner ubicate nel mondo che siano interessate e capaci di produrre localmente presso i propri stabilimenti lo stesso prodotto utilizzando il know-how da lei fornito. Se l'azienda Partner non ha i macchinari necessari allora glieli procurerà la stessa PMI, come pure fornirà le specifiche di tutti i cambiamenti e miglioramenti da apportare nel tempo per la migliore realizzazione del prodotto.

L'azienda Partner potrà quindi produrre e commercializzare nella sua area geografica di esclusiva. Per la commercializzazione la PMI dovrà fornire indicazioni di base molto chiare su posizionamento e politica di pricing, ma lascerà che l'Azenda Partner possa adattare la politica commerciale alla realtà della sua area di competenza, in pieno stile “glocal”..


Qual'é il vantaggio per l'azienda Partner?

L'azienda Partner è più che interessata alla proposta della nostra PMI. Infatti allarga la propria gamma prodotto con un investimento ben inferiore a quello che dovrebbe sostenere per inventarsi un prodotto nuovo, minimizza i rischi ed i tempi perchè si procura un prodotto ed un processo che già funzionano e che verranno a vedere in Italia prima di acquisire. Infine non ha grandi costi commerciali aggiuntivi se non i costi marginali, perchè ovviamente utilizzerà la rete commerciale di cui già dispone.


Quali sono i vantaggi per la nostra PMI?

Per ciascuna azienda Partner la PMI italiana ottiene un ricavo dalla vendita del know-how iniziale, del software e magari anche dei macchinari, oltre ai ricavi per fornire indicazioni continuative sul miglioramento del processo. Inoltre ottiene royalties su base continuativa dalla commercializzazione dei prodotti. Perchè il flusso duri nel tempo la nostra PMI dovrà aggiornare continuamente i prodotti ed i processi, così che le aziende Partner siano incentivate a mantenere il prodotto competitivo. Il network business model basato sul franchising industriale permette alla PMI italiana di raggiungere clienti in tutto il mondo limitando il capitale investito ed i rischi d'impresa.


Problemi e rischi per la nostra PMI?

Realizzare un Network business model non è affatto facile. Registrare brevetti su prodotto e processo è indispensabile, come anche conoscere e gestire problematiche legali internazionali, od il controllo sulla contabilità e sulla corrrettezza dei Partner, che dovranno essere scelti con attenzione e monitorati su base continuativa. La PMI dovrà cioé seguire cosa fanno i suoi Partner in giro per il mondo, dovrà fare incrociare il know-how e miglioramenti trai diversi Partner, dovrà essere capace di mantenersi indispensabile alla rete che ha creato, perchè la tentazione dei Partners a fare per proprio conto sarà sempre in agguato.


Dal prodotto alla competenza: la conoscenza come fattore di successo

Il cambiamento principale verso questo modello di Franchising Industriale non è in realtà la delocalizzazione produttiva né far gestire una rete commerciale a terzi, ma è il cambiamento del focus della nostra PMI dal PRODOTTO alle COMPETENZE. La PMI si trasforma da un centro di produzione e commercializzazione di prodotti ad un centro di produzione e vendita di competenze, di prodotto e di processo. Non conta più chi è a produrre e non conta più neppure chi è a vendere: oggi facciamo svolgere queste attività da certe aziende ma in un mondo globalizzato ed altamente competitivo domani lo faremo inevitabilmente svolgere da altre. Quello che la PMI deve offrire e farsi remunerare è la competenza di come farlo.

giovedì 6 maggio 2010

Il business plan per il rilancio di una struttura alberghiera


-->
Capire il problema per poterlo affrontare
Vediamo ora un caso pratico di business plan nel settore turistico alberghiero: un progetto reale nel quale abbiamo creato il business plan per il rilancio di una struttura alberghiera (il “Blue Village”) in una nota stazione balneare delle Marche.
Il Blue Village é una struttura alberghiera importante con oltre 300 camere e fa capo ad un imprenditore che gestisce l'albergo ed é anche proprietario del complesso immobiliare. Non ci conosce e ci chiama incuriosito dai nostri articoli sul web.
La situazione finanziaria al Blue Village é tesa, certamente per la diminuita presenza di clienti, conseguenza della crisi economica generale e della crisi di un noto tour operator che rivestiva un ruolo piuttosto rilevante nella commercializzazione. Ma l'imprenditore capisce che non é tutto qui: la crisi ha origini più profonde e se il prodotto vende meno non é solo colpa del marketing e dei tour operator. Ne discutiamo a lungo, c'é un problema di posizionamento. Ecco allora cosa facciamo.
Situazione attuale del Blue Village e creazione di un nuovo Business Plan
Il Blue Village è una struttura turistica relativamente nuova e di buona qualità che soffre di tasso di sfitto e di un ricavo medio medio per camera (o Occupancy Rate e RevPar nel nostro gergo) che negli ultimi due anni sono divenuti insoddisfacenti. L'indebitamento finanziario di Blue Village è inoltre elevato a causa del costo di costruzione non ancora assorbito e non è coerente con le attuali limitate capacità di generazione di cassa e di redditività dell'azienda alberghiera. Il nostro obiettivo è allora quello di individuare un nuovo posizionamento competitivo dell'hotel e redarre un business plan che permetta di trovare un appropriato equilibrio economico e finanziario, individuando le aree di criticità e gli investimenti industriali e commerciali e gli interventi organizzativi che possano permettere la ripresa di fatturato e della redditività facendo leva sulle capacità competitive della struttura e coerentemente con le caratteristiche dei flussi turistici incoming nelle Marche. Sulla base di esperienze analoghe impostiamo il Business Plan in otto fasi.
Il quadro di riferimento
Il primo passo è capire il contesto in cui opera Blue Village. Individuamo le dimensioni e le caratteristiche del mercato dell'ospitalità nelle Marche, in particolare identifichiamo gli aspetti rilevanti per capire opportunità e limiti di questo contesto. Guardiamo quindi il trend del mercato turistico internazionale, l'Italia e il mercato dell'ospitalità in Marche, sia come consistenza ricettiva che come dimensioni e trend delle presenze, provenienza, dimensioni, durata del soggiorno e stagionalità dei flussi all'interno della Marche, dei flussi di incoming dalle altre regioni italiane e dall'estero. Definiamo quindi i driver di successo del mercato dell'ospitalità in Marche e gli aspetti di criticità con la struttura alberghiera del Blue Village deve misurarsi. Alcuni elementi appaiono subito evidenti: la struttura alberghiera ha bisogno di clientela italiana nei mesi luglio e agosto e internazionale negli altri mesi, deve intercettare i flussi provenienti dai paesi della new europe, deve uscire dalla connotazione solo mare e fare anche leva come base per il turismo d'arte.
Blue Village: location, real estate e posizionamento competitivo
Il secondo passo è capire le caratteristiche del Blue Village nei suoi tre principali aspetti alberghieri:
  • la location: ovvero la qualità dell'ubicazione rispetto ad autostrade ed aeroporti, rispetto al mare e alle spiagge rinomate, rispetto alle località d'arte di grande richamo, ai parchi divertimento, alle località modaiole, ai paesi con sagre ed eventi tipici, ecc. In sintesi, il Blue Village ha una buona ubicazione anche se non esclusiva, con dei limiti solo sulla fascia di utenza giovanile più modaiola.
  • il real estate: ovvero la qualità della struttura immobiliare al confronto con strutture alberghiere alternative secondo le aspettative della utenza target, in Italia ed all'estero. In questa analisi sono emersi alcuni limiti, peraltro facilmente superabili, riguardo una struttura impostata ad offrire un po' di tutto ma non così attraente per chi cerca qualcosa di specifico.
  • il posizionamento competitivo: ovvero in cosa la struttura alberghiera del Blue Village può caratterizzarsi in modo da risultare preferibile rispetto ad altre strutture, specialmente nella tipologia di offerta di servizi per una fascia di clientela specifica. E' il momento delle scelte: la focalizzazione su una tipologia di clientela costa la possibile perdita di clientela generica ma è un passo improrogabile. Definiamo così chi vogliamo attrarre e su questo target e rivediamo tutto il concept della struttura alberghiera.
Piano Industriale: obiettivi da raggiungere nel triennio
Siamo ora in grado di indicare “dove si vuole andare”. Ciò significa quali sono le tipologie di clientela da attrarre, da quali paesi, in quali periodi, con quale tipologia di struttura alberghiera e offerta di servizi, con quali altre strutture alberghiere ci confrontiamo (confronto dell'offerta e dei prezzi), con quali obiettivi realistici di flussi, coerentemente con i dati di sistema visti nel quadro di riferimento e con il posizionamento competitivo rispetto alle altre strutture alberghiere.
Piano Industriale: strumenti attuativi
Identifichiamo adesso gli strumenti attuativi del Business Plan (“quale strada devo seguire”). E' basato su investimenti tecnici sulla struttura alberghiera (il Capex) e di marketing, perchè senza investimenti non si va da nessuna parte. Appare allora evidente che la struttura alberghiera ha bisogno di alcuni interventi di ristrutturazione per offrire servizi di qualità più alta, che alcuni dei servizi offerti sono superflui per il nostro target ed altri devono essere invece migliorati. Dato inoltre che per ottenere una alta occupancy durante tutta la stagione devo attrarre sia ospiti italiani (in luglio ed agosto) che stranieri (in bassa stagione) dobbiamo creare un piano commerciale molto dettagliato a livello di paesi di origine. E' inoltre necessario prendere decisioni importanti sul branding e sui canali. Il piano industriale si articola allora nell'analisi dimensione flussi, trend, durata media soggiorno, mix canale, T.O., azioni programmate per ciascuna regione italiana e per ciascun paese estero di incoming. In ampia parte é un lavoro che impatta l'agenzia captive che cura la commercializzazione.
Revenue model e business plan a tre anni
Il passo successivo del nostro Business Plan è l'elaborazione del modello che simula lo sviluppo dei ricavi della struttura alberghiera in varie ipotesi di pricing e di articolazione dell'offerta commerciale e simula il conto economico prospettico. Abbiamo inoltre completamente separato la gestione immobiliare da quella alberghiera, onde non creare travasi di competenze e costi e poter avere un controllo di gestione agile ed immediato. Nell'ambito della gestione alberghiera abbiamo diviso i centri di costo/ricavo da pernottamento, da food & beverage e da servizi.
Financial plan a tre anni
La sesta sezione del Business Plan è l'elaborazione excel del piano finanziario, declinata in conto economico, flussi di cassa e stato patrimoniale prospettici, redatti inizialmente su base annuale e poi necessariamente su base mensile, vista la cattiva abitudine di pagare tardi dei tour operator e la necessità di gestire con la massima attenzione ogni flusso finanziario.
Nuova finanza a supporto del plan triennale
Sulla base dei flussi di cassa disponibili in Business Plan può sviluppare ora delle ipotesi precise riguardo gli ammontari e le forme tecniche della nuova finanza necessaria per l'implementazione del piano. I finanziamenti e gli apporti di capitale sono studiati in modo mirato, così da non creare inutili tensioni finanziarie e comunque offrire un rapporto di coverage finanziario più che adeguato.
Sostenibilità del debito e rendimento del capitale investito
L'ultima sezione del Business Plan calcola gli indici finanziari sulla sostenibilità del piano: verifica cioè se e in che misura attuando il piano il Blue Village riesce a raggiungere un equilibrio che permetta la continuità aziendale, la sostenibilità dell'indebitamento anno dopo anno ed un rendimento sul capitale investito coerente con le aspettative del settore alberghiero. L'aspetto più rilevante sarà la simulazione della sostenibilità del piano in diversi scenari ambientali, relativi ai trend globali del turismo, all'evolversi dei tassi di interesse, alla velocità di ritorno delle azioni commerciali nei diversi paesi. Più che un Busoness Plan perfetto conta saper produrre un plan che regge e si adatta a situazioni ambientali diverse.
Fattibilità del Business Plan per il Blue Village
Concludiamo con alcune note riguardo la fattibilità del nostro Business Plan.
Blue Village non è ubicato in un luogo incantevole ed unico ma è facile da raggiungere sia in auto che in aereo, è sul mare e non è lontano da mete di turismo d'arte, è in una regione di crescente interesse enogastronomico, ha ristoranti, piscine, animazione, è un'ottima struttura alberghiera con ampia recettività.
Semplicemente non ha chiaro se sta competendo con i villaggi turistici di Valtur, con i campeggi attrezzati a bungalow o con gli agriturismo più attrezzati. Capito quale deve essere l'obiettivo raggiungibile, il percorso diventa chiaro, non è semplice ma si può fare.
Vi serve un aiuto per preparare un Business Plan di successo? Scriveteci alla mail: info@eqst.it!

venerdì 5 marzo 2010

Un esempio di modello di business plan aziendale in 7 fasi

Sarà la crisi economica, o la difficoltà ad ottenere finanziamenti, o la crescente attenzione a cercare di capire dove stiamo andando, comunque sempre più imprese redigono un business plan. Bene, anzi no, perché non é così facile preparare un business plan che serva e che funzioni. Ecco l'esempio di modello di business plan aziendale in 7 fasi che funziona.


Come fare un business plan

Ho recentemente letto il business plan di una PMI redatto da una società di consulenza aziendale di risonanza internazionale. Perfetto nella struttura, intrigante nel layout colorato a grafici, accurato e ineccepibile nelle informazioni, sobrio e understatement nei contenuti e nelle previsioni, totalmente inutile per un'azienda così piccola e per l'imprenditore, che infatti ci chiede perché non funziona e cosa può fare adesso. Vediamo allora sia come deve essere il modello del business plan (il nostro ha 7 fasi che sono in sequenza logica ma vanno svolte tutte assieme perché si influenzano reciprocamente), cosa comprende ciascuna fase, quali gli errori da evitare, come metterci qualcosa in più, che fa la differenza.


Basics: il business plan é uno strumento di comunicazione, serve a vendere

Prima di tutto: cosa vogliamo comunicare e a chi? Se lo prepariamo per gli azionisti, vogliamo convincerli a condividere le scelte strategiche ed a supportarle finanziariamente. Se lo prepariamo per le banche, dovremo spiegare come e perché l'azienda é in grado di mantenere la propria continuità ed affidabilità aziendale senza stravolgimenti nel capitale e nell'oganizzazione; se lo prepariamo per cercare capitali da nuovi soci dovremo spiegare il progetto che permetterà loro di uscire dall'azienda riprendendosi i propri soldi con un rendimento proporzionale al rischio dell'investimento effettuato. Insomma, il business plan non é uno strumento neutrale, é uno strumento di comunicazione, serve a vendere.


Fase Uno: Il mercato di riferimento dell'azienda

Prima di formulare un plan bisogna capire il contesto. Vediamo quindi di capire le attuali caratteristiche del settore (con i numeri in quantità e valore esatti ed aggiornati), il trend storico ed il trend che i maggiori istituti di ricerca si attendono per i prossimi anni, come é composta la domanda (cioè chi sono e cosa vogliono i clienti di questo settore), chi sono i maggiori operatori (che quota di mercato hanno, chi compete meglio e perché). Possiamo a questo punto identificare i drivers di successo (che poi sono anche i parametri di giudizio che più contano per i clienti), che diventano gli elementi sui quali bisognerà fare leva per competere nel prossimo futuro.


Fase due: Il posizionamento competitivo dell'azienda

Capiamo il posizionamento dell'azienda rispetto ai competitors. L'aspetto che più importa per delineare come si potranno sviluppare le vendite di ciascuna area d'affari e di ciascuna linea di prodotti é il confronto riguardo la qualità, il contenuto tecnologico, lo styling, il prezzo, il servizio dei prodotti / servizi dell'azienda rispetto ai prodotti / servizi dei principali competitors, italiani e stranieri. Con una analogia automobilistica diciamo che effettuiamo una specie di prova su strada di diverse automobili in cui si giudicano i prodotti / servizi nostri e dei concorrenti sulla base di tutti i drivers identificati nella fase 1. Alla fine di questa fase ci siamo chiariti in quali aspetti l'azienda compete (e deve effettuare investimenti per presidiare la propria leadership) ed in quali invece needs improvements (e deve effettuare investimenti per migliorarsi).

Fase tre: Gli investimenti per competere

Senza investimenti non c'è futuro, il Plan deve subito chiarire in cosa si investe, come e quali risultati é lecito auspicarsi di ottenere da questi investimenti. In questa fase l'aspetto più critico é avere informazioni su cosa stanno investendo i competitors e come cambierà il posizionamento competitivo a seguito dei nostri e dei loro investimenti. Visto che le fonti di finanziamento degli investimenti sono sempre insufficienti, dovremo simulare il payback ed il rendimento atteso di molte diverse strutture di investimento onde poter poi scegliere la più idonea e concretamente realizzabile. Il business plan diventa quindi l'opzione preferita rispetto ai molti scenari preparati e discussi.

Fase 4: La struttura organizzativa coerente con strategia ed investimenti

Parallelamente dobbiamo ripensare alla struttura organizzativa, in modo da adeguarla alle esigenze che abbiamo delineato con le fasi precedenti. La struttura sarà ovviamente la più snella possibile, con l'esternalizzazione di tutto, tranne che delle conoscenze che fanno il successo dell'azienda. Il modello di riferimento che ho sempre in mente é un mio cliente nel settore catering: più di 50 strutture servite in tutta Italia, due soci/manager e una segretaria part-time, in pratica i dipendenti fissi sono mezzo, un business scalabile all'infinito.

Fase 5: Lo sviluppo dei ricavi e la marginalità

Veniamo adesso all'aspetto che poi tutti guarderanno per prima cosa: lo sviluppo dei ricavi e la marginalità per linea di prodotto . L'errore più frequente é l'approccio bottom-up: se 10 agenti chiudono adesso n contratti alla settimana, in sei mesi con 20 agenti ottengo 2n contratti. Lasciamo perdere, non siamo all'asilo. Si parte ovviamente di dati di mercato, si guarda alla penetrazione in ogni segmento, ecc. La marginalità fa parte dell'analisi, in quanto non si può trattare d sviluppo ricavi prescindendo dal prezzo. Sui costi generali il planning é la semplice versione numerica delle scelte organizzative.

Fase 6: Fonti finanziarie

Ogni plan necessita risorse finanziarie. Pianificare le fonti di debito e capitale é di cruciale importanza. In questa fase identifichiamo come finanziamo l'attività, con quali controparti ed a quali costi.

Fase 7: Sensitivity analysis e Financial Plan

Per capire se il business plan funziona dobbiamo tradurlo in un financial plan, che altro non é che la previsione di conto economico, flussi di cassa e struttura patrimoniale che avremo realizzando il nostro business plan. Come abbiamo già detto in altre occasioni, non serve redarre un financial plan perfetto, perché non lo si azzecca mai. Quello che serve é simulare come cambia il plan al variare dei vari input: cosa succede se il trend di un prodotto è diverso dal previsto, se dobbiamo abbassare i prezzi di un prodotto, se un costo di produzione cresce più del dovuto, se un mercato estero si chiude perché c'è un competitor più forte, se il dollaro sale o scende, se i tassi salgono o scendono, ecc. Il plan diventa così uno strumento per simulare quello che ci può succedere prima che succeda. Riprendendo l'esempio automobilistico, facciamo fare il crash test al computer anziché all'azienda.


Infine, se avete ancora dei dubbi, il business plan fatelo fare a noi.


Sei un imprenditore che vuole rilanciare la sua attività? C'é un prodotto apposito per le piccole aziende che vogliono ripensare al proprio business plan (leggi qui).






mercoledì 3 marzo 2010

L'Energy Program per ristrutturare il debito finanziario

Il nostro Energy Program per ristrutturare il debito finanziario é un package di consulenza ideato per la piccola e media impresa con problemi di liquidità e di eccessivo indebitamento con le banche.

Il nostro Energy Program per ristrutturare il debito finanziario é un intervento incisivo compattato in dieci giorni, volto a determinare se ed in quale misura é verosimile attuare con successo una rinegoziazione e ristrutturazione del debito finanziario. Al termine del programma viene rilasciato infatti un documento di sintesi che include, oltre alle analisi economiche e finanziarie attuali e prospettiche, anche il giudizio di fattibilità in merito all'attuazione di un piano di risanamento aziendale e di ristrutturazione del debito finanziario. Ma non solo: viene fornita un'analisi di quali obiettivi si ritengono perseguibili ed una guida operativa su come procedere, sia avvalendosi della nostra esperienza ma anche agendo per proprio conto o con l'assistenza di altri consulenti.

Il nostro Energy Program per ristrutturare il debito finanziario é uno strumento agile, secco, estremamente utile e pragmatico, per l'imprenditore della PMI che vuole capire ed agire.

Il nostro Energy Program per ristrutturare il debito finanziario viene offerto ad un prezzo estremamente contenuto: 6.000 euro più Iva per ogni società oggetto dell'analisi, più le spese di viaggio fuori Milano.

Se pensate che la vostra attività possa beneficiare del nostro Energy Program, mandate una mail a info@eqsstudio.com.

L'Energy Program per l'albergo

Il nostro Energy Program per l'albergo é un package ideato per le strutture alberghiere che necessitano un rilancio commerciale e finanziario.


Il nostro Energy Program per l'albergo é un intervento breve ma tecnico e focalizzato, che analizza l'attrattività dell'albergo dal lato location, della struttura del real estate e della competitività, oltre che effettuare l'analisi dei costi/ricavi secondo schemi internazionali da noi adattati alla realtà italiana. Su queste basi viene stilato un documento che suggerisce azioni e correttivi. Ma non solo: viene fornita una guida operativa su come procedere, sia avvalendosi della nostra esperienza ma anche agendo per proprio conto o con l'assistenza di altri consulenti.


Il nostro Energy Program per l'albergo é uno strumento agile, secco, estremamente utile e pragmatico, per l'imprenditore alberghiero che vuole capire e gestire la sua attività in modo propositivo e dinamico.


Il nostro Energy Program per l'albergo viene offerto ad un prezzo estremamente contenuto: 8.000 euro più Iva per ogni albergo oggetto dell'analisi, più le spese di viaggio fuori Milano.


Se pensate che la vostra attività possa beneficiare del nostro Energy Program, mandate una mail a info@eqsstudio.com.

L'Energy Program per la Piccola Media Impresa

Il nostro Energy Program per la Piccola Media Impresa é un package di consulenza ideato per le PMI che hanno bisogno di un rilancio commerciale e finanziario.

Il nostro Energy Program per la Piccola Media Impresa é un intervento incisivo, compattato in due settimane, volto a chiarire quali sono le opzioni strategiche concretamente perseguibili dalla società, come attuarle e come finanziarle. Al termine del programma viene rilasciato un documento di sintesi che identifica i drivers di successo che l'azienda deve presidiare, l'analisi di possibili soluzioni, il planning economico da seguire, il planning finanziario per attuare le decisioni strategiche suggerite. L'imprenditore potrà quindi focalizzare la sua attenzione e le risorse aziendali sui pochi aspetti che per noi generano veramente valore, con una breve guida operativa sul cosa fare immediatamente dopo, sia avvalendosi della nostra esperienza ma anche agendo per proprio conto o con l'assistenza di altri consulenti.

Il nostro Energy Program per la Piccola Media Impresa é uno strumento agile, secco, estremamente utile e pragmatico, per l'imprenditore che vuole capire prima di prendere decisioni che coinvolgono il futuro dell'azienda.

Il nostro Energy Program per la Piccola Media Impresa viene offerto ad un prezzo estremamente contenuto: 9.000 euro più Iva per ogni società oggetto dell'analisi, più le spese di viaggio fuori Milano.

Se pensate che la vostra attività possa beneficiare del nostro Energy Program, mandate una mail a info@eqsstudio.com.

martedì 23 febbraio 2010

L'Attrattività della Location di una struttura alberghiera

L'attrattività di un albergo dipende da dové ubicato (qualità della location), dalla sua struttura di ricettività (qualità del real estate) e dal suo posizionamento competitivo rispetto ai competitors ubicati nella stessa area (MPI/ARI/RGI). Vediamo qui i parametri sulla qualità della location e come influenza la strategia dell'offerta commerciale.


Il market feasibility study
Qualsiasi analisi di attrattività e di posizionamento competitivo inizia dal market feasibility study riguardo la location. Si tratta di uno strumento standard dell'industria alberghiera che viene applicato quando si deve decidere se aprire un albergo in una data località ma è anche utile come primo passo del riposizionamento competitivo di strutture esistenti da tempo. Comprende le seguenti analisi.

Distanza da motori di domanda ricettiva
Il primo parametro è ovviamente la distanza dell'albergo rispetto ai motori di domanda ricettiva propri di quell'area. Identifichiamo quindi i drivers della domanda di ricettività: se il driver è l'attrattività turistica guarderemo la distanza dal centro di interesse turistico (es. la distanza dalla famosa cattedrale, dal museo principale, dalla spiaggia più rinomata, dal campo di golf, ecc.) se il driver è la domanda business guarderemo la distanza dai luoghi ove si tengono i meeting (distanza dalla city, dalla fiera, dal centro congressi, ecc.). Calcoliamo la distanza sia in Km che in tempo di percorrenza (con un sito tipo via Michelin si fa in un attimo). Possiamo redarre una semplice tabella con un giudizio da uno a cinque riguardo ciascun driver di domanda ricettiva. La distanza dai drivers di domanda determina il target di clientela dell'albergo.

Accesso
Passaggio immediatamente successivo è valutare la qualità dell'accesso alla struttura alberghiera, quanto è cioè agevole raggiungerla (e anche lasciarla quando il cliente parte) con ogni mezzo di trasporto: valutiamo quindi quanto l'albergo è comodo da raggiungere in aereo, in auto, in treno, in pullman, coi mezzi pubblici locali, in taxi, ecc. La qualità dell'accesso deve essere valutata anche in funzione di parametri meno ovvi rispetto alla semplice distanza: poche centinaia di metri dalla metropolitana sono moltissimi se l'ospite viaggia con bagagli o se siamo in una località molto calda o molto fredda; un buon accesso stradale deve essere considerato anche in funzione del traffico abituale e richiede ampi parcheggi riservati a disposizione dell'albergo. La qualità dell'accesso vincola la tipologia di domanda di ricettività che l'albergo vuole intercettare (se alle 8:30 del mattino ho 300 businessman in uscita, con quale mezzo lasceranno velocemente l'albergo tutti assieme?).

Visibilità
La visibilità dell'hotel e lo stile della struttura dall'esterno è un aspetto probabilmente meno rilevante rispetto ai precedenti ma non è da trascurare, spesso può fare la differenza rispetto ad altre strutture alberghiere alberghiere ubicate a poca distanza: una struttura attraente e ben visibile crea un fondamentale primo impatto sul cliente e lo rassicura riguardo la sua scelta. E' inoltre un elemento sul quale si può facilmente intervenire.

Area
La qualità dell'area attorno all'albergo può agevolare il successo dell'albergo quanto creare problemi difficilmente gestibili dall'albergatore. Purtroppo diversi hotel storici in Italia, apparentemente in ottime location, vicino alla stazione ferroviaria piuttosto che in quartieri “storici”, si ritrovano oggi in aree con rilevanti problemi di microcriminalità. Così come l'affermarsi di nuovi quartieri trendy e modaioli rende assai interessanti aree apparentemente meno centrali. Un'area in crisi richiede interventi a livello pubblico, in questo caso occorre stimolarli.

Il giudizio sull'attrattività
La sintesi dei giudizi precedenti è innanzi tutto un giudizio globale di attrattività della location. E' un giudizio che deve essere declinato per ciascuna tipologia di target: avremo quindi un giudizio di attrattività diverso per la clientela business, turismo, svago, giovane, ragazzi, oltre a giudizi per target più specifici. Da qui otteniamo inoltre indicazioni precise su come deve essere focalizzata l'offerta e tutta la politica di marketing e di organizzazione dell'hotel. Effettuare un aggiornamento periodico di questi aspetti è semplice ed indispensabile.


Gestisci un albergo? Vuoi rilanciare l'attività? C'é un prodotto apposito per gli alberghi che vogliono capire come migliore il proprio business (leggi qui).