sabato 13 febbraio 2021

Valutazione delle partecipazioni in imprese non immobiliari detenute dagli organismi di investimento collettivo del risparmio. Il caso delle società di gestione dei centri commerciali.

 

Il calcolo del NAV dei fondi immobiliari richiede che si valutino, oltre al patrimonio immobiliare, anche le società detenute dal fondo. Nel caso dei centri commerciali è ormai prassi diffusa la separazione tra la proprietà immobiliare, in capo al fondo di investimento o ad una società immobiliare, dalla gestione del centro commerciale, effettuata da una società che detiene le necessarie licenze commerciali, gestisce i rapporti con i conduttori e corrisponde un canone di locazione immobiliare alla proprietà. Vediamo qual'è la metodologia utilizzata dall'esperto indipendente.


Chi legge questo blog sa già come si valuta sia la componente immobiliare che quella gestionale; in questo caso abbiamo però due aspetti particolari. Il primo è il rispetto del Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio emanato da Banca d'Italia a cui devono attenersi tutti i fondi in quanto sono organismi di investimento collettivo del risparmio. Il secondo è la connessione e la coerenza tra perizia immobiliare e la valutazione della gestione.

Banca d'Italia accetta l'applicazione dei “metodi di valutazione basati su indicatori di tipo economico-patrimoniale” ed il calcolo del valore dell'impresa attraverso l’attualizzazione di grandezze derivate dal conto economico e dai flussi di cassa con un appropriato tasso di sconto (come siamo usi fare) e pone peraltro poche condizioni tra le quali segnaliamo il requisito per cui “ l’impresa valutata abbia chiuso per almeno tre esercizi consecutivi il bilancio in utile”. In pratica si può attribuire un valore di goodwill in supero al valore di acquisto ed al patrimonio dell'impresa semprechè la società non sia in perdita. Inoltre il tasso di attualizzazione deve tener conto del tipo di attività e dalle caratteristiche finanziarie dell'impresa. Anche qui siamo perfettamente allineati con le nostre usuali metodologie, ovvio è che l'attività di gestione è diversa da quella immobiliare (noi diciamo che hanno Beta diverso) e hanno diverso leverage (alto l'attività immobiliare, nullo l'attività di gestione).

Più complessa la questione della connessione e la coerenza tra la perizia immobiliare e la valutazione della gestione. Qui la prassi vede l'esperto indipendente utilizzare due approcci diversi ma entrambi corretti.

Il primo lo definiamo “stand-alone”. Prevede che la società di gestione sia valutata in base alla sua PFN ed al valore attuale dei futuri flussi reddituali, tenendo conto del costo della locazione immobiliare. Il margine che il gestore ottiene dalla gestione rispetto al costo della locazione è attribuibile, oltre che alla sua capacità d'impresa, alla detenzione delle licenze commerciali che permettono di stipulare contratti anche con operatori (i tenant che a loro volta gestiscono i singoli negozi) normalmente sprovvisti della licenza comunale relativo a ciascun punto vendita. Lo stesso approccio stand-alone lo si applica alla componente immobiliare, ove i flussi reddituali corrispondono a quanto incassato in base al contratto di locazione ovvero cioè a quanto la società di gestione riconosce alla proprietà. E' ovviamente l'approccio che si segue quando le due attività fanno capo a soggetti diversi e non correlati tra loro (come è ad esempio comune nel settore alberghiero).

Il secondo approccio lo definiamo “in trasparenza” e contabilmente è in parte assimilabile ad un consolidato. La perizia in capo alla proprietà considera come ricavi quelli complessivi derivanti dall'attività di gestione e come costi ingloba tutti i costi sia quelli propri della proprietà immobiliare che quelli sostenuti dal gestore. Di fatto il canone di locazione tra gestore e proprietà non viene considerato del tutto, come in un bilancio consolidato si va ad elidere. In questo caso la valutazione della società di gestione si limita alla sua posizione finanziaria netta, che in questa tipologia di impresa equivale contabilmente al “Tangible Net Worth” in quanto la componente delle immobilizzazioni immateriali che si origina col cash flow prospettico non viene considerata per non incorrere in un “double counting” visto che è già compresa nel calcolo del valore immobiliare.

Entrambi gli approcci sono tecnicamente corretti e funzionali al calcolo del NAV del fondo che risulti proprietario sia del complesso immobiliare che della società di gestione ed entrambi sono adottati dagli esperti indipendenti delle diverse SGR ma in realtà non si equivalgono e presentano vantaggi e limiti.

Il metodo stand-alone considera le due aziende separatamente, è perfettamente fedele ai principi aziendalistici, è applicabile a prescindere da chi siano i soci delle due aziende, calcola le imposte in modo puntuale sui due soggetti giuridici, di cui a volte uno solo è una società di capitali ed applica WACC diversi ed appropriati, proprio come richiede Banca d'Italia. Approccio tecnicamente ineccepibile che però ha due difetti. Il primo è il canone di locazione tra parti correlate (correlatissime, sono madre/figlia) che sposta a piacimento la redditività e di conseguenza il valore aziendale tra proprietà e gestore. Il secondo si palesa quando il fondo dismette e cede il centro commerciale, allorché lo si valuta nel suo complesso e non come sum-of-parts ed il diverso WACC tra le due attività non ha senso.

Il metodo “in trasparenza” supera questi problemi perché considera il centro commerciale come un'unica entità. Ma anche questo approccio ha i suoi limiti: il perimetro delle due entità valutate non coincide con quello societario, a livello fiscale non recepisce le differenze tra la fiscalità della società di gestione e la fiscalità del fondo ed infine è veramente difficile da applicare in modo corretto. Presuppone infatti che si disponga di un bilancio consolidato delle due attività in modo da considerare tutti i costi senza intercompany: tale consolidato non viene redatto da nessuno e non sempre l'esperto indipendente che effettua la valutazione dispone di tutti gli elementi necessari per calcolarlo.

venerdì 16 settembre 2016

La valorizzazione di una catena di punti vendita

La minore propensione al consumo conseguente la recessione ed la crescita delle vendite on-line hanno messo in dubbio molti aspetti del modello distributivo basato sulla catena di punti vendita monomarchio, cresciuto sensibilmente nell'ultimo decennio in tutto il settore della grande distribuzione non-food. Oggi la proliferazione dei punti vendita non comporta automaticamente un aumento del rendimento del capitale investito e dell'avviamento commerciale. Non è solo una questione contabile di analisi della redditività di ciascun punto vendita: il problema ora è capire se e come la creazione di valore attraverso una catena di punti vendita crea “Goodwill” e come misurarlo.

La misurazione tradizionale della performance di una catena di punti vendita
La performance economica di una catena di punti vendita si misura in base a metriche di volume (ad esempio volumi di vendita per mq di GLA / rotazione prodotti di ciascuna area), in base a parametri contabili (ad esempio fatturato / margine di redditività EBITDAR pre rent / utile operativo) e tramite il benchmarking rispetto a parametri di mercato (ad esempio presenze sul punto vendita vs numero famiglie abitanti nell'area di riferimento). L'obiettivo è capire se ogni punto vendita performa in misura adeguata alle potenzialità della propria location, ricordando che secondo la logica economica non conta quanto “ci fai” ma quanto “potresti farci”.
Se per Goodwill di una catena di punti vendita intendiamo l'avviamento commerciale allora è solo una questione contabile. Poco importa con quanti punti vendita si operi. Anzi secondo una logica di pura performance economica, meno sono i punti vendita, tanto più semplice la gestione: meglio avere relativamente pochi punti vendita, di grande superficie, ubicati nei bacini di utenza di rilevanza per i prodotti distribuiti. Tutto bene anzi no, perché il mondo è cambiato.

Crisi, internet e la creazione di Goodwill oggi
Con la crisi economica tende a diminuire la loyalty del consumatore verso i brand di massa e verso il punto vendita abituale. Più si diffonde l'e-commerce più diventa inutile la distribuzione fisica dei prodotti non-food durables e diminuisce l'avviamento commerciale dei punti vendita. Inoltre l'elevato costo della distribuzione viene assorbito solamente da prodotti ad elevato valore aggiunto.
Ciò che allora chiedono i produttori alla rete di distribuzione non è “solamente” volume – ricavo - servizio, ma anche e soprattutto di essere una rete che presidi la market share sul territorio e fidelizzi i clienti. Elemento discriminante è quindi la capacità della rete di creare (e mantenere) un rapporto privilegiato con la propria clientela. Il Goodwill di una catena di punti vendita, ovvero ciò che la rende attraente non solo per l'azienda ma anche per i clienti, per i produttori e persino per un competitor è quindi qualcosa di più complesso rispetto alla sola performance economica. Ma come si misura?

Definire le metriche del Goodwill
La metrica che cerchiamo deve riuscire a confrontare e misurare quanto ciascun punto vendita “vale per me” rispetto al suo costo. In termini tecnici dobbiamo misurare il value in use di ciascun punto vendita con metriche funzionali al Goodwill aziendale anzichè limitate all'avviamento commerciale.
Un'analisi su un elevato numero di punti vendita richiede inoltre criteri omogenei e trasparenti così da ottenere uno strumento che sia unico per tutta la catena; strumento che deve essere anche dinamico, possa cioè essere applicato nel tempo sia agli stessi punti vendita che a quelli di nuova apertura. L'omogeneità non deve però penalizzare l'aspetto che più ci interessa, ovvero la valorizzazione delle specificità di ciascuna location, cioè la variabile che crea valore al di là di quanto venga rappresentato dai soli dati contabili. Dobbiamo quindi utilizzare un sistema di metriche unico per tutti i punti vendita che in aggiunta ai dati reddituali e finanziari incorpori gli elementi di caratterizzazione di ciascuna location in una logica di creazione di valore di rete.
E' allora importante l'affidabilità dei dati di mercato che utilizzeremo. Il problema non è l'accuratezza dei dati (oggi ci sono istituti di ricerca di assoluta affidabilità) ma la loro rilevanza rispetto al nostro obiettivo che non coincide con quello di chi fa analisi di mercato per tipologia di prodotto e consumo: il dato che ci serve probabilmente non esiste, dobbiamo utilizzare un set dati assimilabili, che incrociamo così da ottenere un proxy del dato che vorremmo.

Per quel che vale, un esempio
La standardizzazione di metriche di misurazione del Goodwill nella grande distribuzione non-food come sopra definito è evidentemente un “non senso”. Possiamo però definire alcuni elementi costanti all'interno del processo: una precisa analisi della distribuzione del target market sul territorio, uno scoring dell'attrattività della location, la definizione della potenzialità effettiva di ciascun punto vendita e del gap attuale, l'investimento sia in Capex che in capitale umano necessario per colmarlo, il costo della location non solamente su basi economiche ma di valore prospettico di mercato, un sistema di metriche da cui creare un “algoritmo” che produca risultati di immediata comprensione e facili da utilizzare.

martedì 15 marzo 2016

Come si scrive un Teaser

Se siete in cerca di risorse per avviare la vostra start-up o per far crescere la vostra aziendina allora sapete cos'è un Teaser. Il Teaser è una breve presentazione di un'idea, un progetto, una società che sottoponiamo ad un potenziale finanziatore, investitore, socio o acquirente. Insomma, è un business plan di una pagina. Vediamo un semplice manuale d'uso.


Il contenuto del Teaser in 6 paragrafi

L'oggetto che si propone: la descrizione più efficace è verticale top-down, cioè prima si spiega qual'è il settore ed il contesto di riferimento, poi chi sono gli operatori attuali sul mercato ed i prodotti / servizi offerti e alla fine si illustra l'oggetto della nostra attività (il progetto, il prodotto, ecc.) e in cosa quello che facciamo si differenzia, ovviamente in meglio, da ciò che fanno i competitors.

Cosa c'è già: il secondo paragrafo è dedicato ad illustrare ciò che è già stato fatto, come è organizzato, quante persone ci lavorano, qualche dato economico; spieghiamo cosa è già stato ottenuto che possiamo mostrare e provare, insomma mostriamo che la nostra non è solo un'idea astratta, specialmente se è una start-up

Cosa sarà: il terzo paragrafo è dedicato a raccontare il “sogno”, cioè quello che la nostra attività diventerà in pochi anni grazie alla collaborazione delle persone ed al finanziamento che stiamo ricercando. E' ovviamente la parte più importante, pensate in grande, osate!

Le persone: le piccole attività iniziano e finiscono con le persone, bisogna giocarsi la faccia, dite chiaramente chi sono le persone dietro al progetto e quali esperienze e capacità hanno. Non bluffate: se manca qualche capacità (cosa normale ad esempio in una start-up) meglio dirlo subito, si potrà così cercare la persona giusta da aggiungere al vostro team.

Le tecnologie: il vantaggio competitivo deve concretizzarsi in una tecnologia propria che i competitors non hanno e che rimarrà patrimonio della società. Ce l'avete già? Avete in mente come realizzarla?

La richiesta e la way-out: alla fine del Teaser descriviamo chiaramente che cosa stiamo cercando: competenze, finanziamenti, soci di capitale, ecc. Se cerchiamo finanziamenti e capitali deve essere chiaro l'ammontare richiesto e quando e come il finanziatore / investitore riavrà indietro il suo investimento.

L'editing del Teaser

Lunghezza: visto che si tratta di un business plan “liofilizzato”, deve stare tutto in una solo foglio A4, se vi arrischiate di andare in una seconda pagina dovete essere certi che chi lo riceve è entusiasta di leggerlo tutto

Lingua: se i destinatari sono tutti italiani, va bene scriverlo in Italiano, altrimenti, nel dubbio, si fa in Inglese e sembra subito più ... professionale

Carattere: se il Teaser è destinato ad essere letto on-line si usa Verdana, se chi lo riceve lo stampa allora va bene Arial.


Immagini: possono essere utili a spiegare quello che facciamo, ma la qualità deve essere alta. Se volete inserire immagini o utilizzare formati meno convenzionali, chiedete aiuto a un fotografo o a un grafic designer professionista, il fai da te è orribile.

lunedì 22 febbraio 2016

Ma quanto incide la licenza sul valore dei locali ad uso commerciale?


Oggi chi detiene dei locali ad uso commerciale, da un piccolo supermercato ad un intero centro commerciale, cerca di ottenere le autorizzazioni commerciali alla vendita di food e non food così da poterli poi locarle a qualunque tenant anche se é privo di proprie licenze, stipulando contratti di affitto di ramo d'azienda o contratti similari. In questo caso il valore della proprietà immobiliare cresce in virtù della maggior redditività creata dalla presenza della licenza che appunto permette di ottenere un canone per l'affitto del ramo d'azienda maggiore rispetto al canone del mero contratto di locazione immobiliare. Già, ma allora quanto incide la licenza sul valore dei locali?

Un calcolo semplice ed empirico

Ovviamente se potessimo stabilire che un locale ad uso commerciale sprovvisto di licenza si può affittare ad un conduttore mediante contratto di locazione immobiliare ad 1 milione di euro l'anno e spunta invece il 20% di canone in più nel caso si affitti mediante contratto di affitto di ramo d'azienda comprensivo della licenza, allora facile è dire che quel 20% di maggior canone è l'effetto della licenza. 
Se il valore immobiliare del locale senza licenza è di 13,3 milioni, ottenuto con una capitalizzazione del reddito al 7,5% annuo, allora il valore complessivo con la licenza diventa di 16,0 milioni, di cui 13,3 milioni sono il valore immobiliare base visto prima ed i 2,7 milioni in più sono il valore reddituale della licenza. 
Il valore della licenza corrisponde allora al 16,88% del valore complessivo del locale (2,7 su 16,0).
Ora non è facile raccogliere sul mercato dei dati così semplici e chiari. Se ci riuscissimo avremmo un conteggio bello, facile e soprattutto sbagliato.

Un calcolo più articolato


Dov'è il problema?
Semplice: cambia il business ed il suo rischio e quindi cambia il rendimento atteso. 
Nel caso della locazione immobiliare il proprietario stipula un contratto nel quale il principale rischio è il rischio controparte, ovvero la qualità del conduttore. Anche nel secondo caso ha il medesimo rischio controparte ma in più detiene la licenza, che ha un valore proprio, un reddito proprio e un rischio imprenditoriale diverso da quello immobiliare, forse minore, forse maggiore. 
Se avete dei dubbi provate a chiedere un mutuo ad una banca sulla base di un contratto di locazione immobiliare o sulla base di un contratto di affitto di ramo d'azienda: scoprirete che la capacità di fare leverage è diversa anche se l'immobile è lo stesso. 
Tecnicamente diciamo che è diverso il costo del capitale rappresentativo del tasso di rischiosità dell'iniziativa e del leverage. Costo del capitale che a volte può essere inferiore, a volte maggiore. Insomma, un conteggio assai meno facile ma questa volta esatto.

lunedì 22 giugno 2015

Unlevered Beta e Levered Beta nel settore immobiliare italiano


Nel calcolo del Cost of Equity, per determinare il levered beta di una società ho sempre utilizzato la formula di Damodaran (“Damodaran on Valuation” 1994) comunemente usata dalle maggiori investment bank, o perlomeno usata in JP Morgan dove ho lavorato. Negli ultimi anni sono stato sempre più impegnato in valutazioni di società nel settore immobiliare, in particolare uffici, grande distribuzione, logistica e alberghiero, per conto di SGR e consulting firm internazionali e mi sono chiesto se sto applicando la formula più appropriata per questi settori in Italia. Riassumo qui qualche mia idea su questo tema.

Premessa: il levered Beta secondo Damodaran

Il Beta di una società è una misura della correlazione dell'andamento del titolo azionario di una società all'andamento dell'indice di mercato e rappresenta quindi una misura della maggiore o minore rischiosità dell'effettuare un investimento in quella società rispetto ad effettuare un investimento di mercato. Distinguiamo ora l'Unlevered Beta (Uβ) dal Levered Beta (Lβ).

L'Unlevered Beta Uβ è quello riferito all'attività aziendale, indipendentemente dalla struttura finanziaria della società e dipende dall'attività svolta e dal Leverage Operativo. In base all'attività svolta, dovrebbero avere un Uβ più alto i settori a maggior ciclicità rispetto a quelli più stabili (quindi l'auto rispetto al food), i prodotti più sensibili al prezzo rispetto a quelli basic, le attività tecnologiche e a forte crescita potenziale rispetto a quelle più solide, stabili e tradizionali. L'Unlevered Beta Uβ dipende inoltre dal livello di Leverage Operativo, ovvero l'incidenza dei costi fissi rispetto al totale dei costi aziendali, ove maggiore è l'incidenza dei costi fissi maggiore è la rigidità aziendale e la difficoltà sia di ridurre i costi nelle fasi recessive che di aumentare la produzione nelle fasi espansive dell'economia.
Il Levered Beta Lβ è invece quello riferito al capitale della società (l'Equity) e dipende dal Uβ e dal livello di Leverage Finanziario della società. Il rapporto tra Uβ e Lβ si calcola allora in base al livello di Leverage Finanziario della società e dall'aliquota fiscale.
Il Leverage Finanziario è dato dal rapporto tra mezzi di terzi a debito e mezzi propri: più cresce il ricorso all'indebitamento e quindi il leverage, più dovrebbe crescere la rischiosità dell'investimento, quindi maggiore tende ad essere Lβ rispetto a Uβ. L'aliquota fiscale attutisce invece l'impatto negativo del Leverage Finanziario: se gli oneri finanziari sono fiscalmente deducibili ad una determinata aliquota fiscale, allora l'azienda con leverage beneficia di un tax shield dovuto alle minori imposte sul reddito che verranno pagate nel tempo all'aliquota fiscale vigente a causa della deducibilità degli oneri finanziari.

La formula di Damodaran cui accennavo è la seguente:
Lβ = Uβ + Uβ * (D/E) (1-T)
dove:
D: Debito ovvero valore di mercato del debito finanziario
E: Equity ovvero valore del capitale economico e non il valore contabile del patrimonio netto (problema facilmente risolvibile nel settore immobiliare se abbiamo una perizia degli immobili)
T: Tax rate ovvero aliquota fiscale vigente
In realtà la formula di base (“Debt Adjusted Approach”) è più complessa perché contempla anche il β del debito, che pure cresce al crescere del leverage finanziario, che però Damodaran scientemente ignora perché pensa che il rischio del business ricada sugli investitori di Equity. Ponendo pari a zero il β sul debito si riottiene infatti la formula vista sopra.

I limiti nel contesto specifico immobiliare italiano

Come dicevo, il tema è se e quanto tale formula sia appropriata nella valutazione di società italiane nel settore immobiliare, quali uffici, grande distribuzione, logistica e alberghiero e nelle operazioni di sviluppo.

Applicando ad esempio la formula ad una società immobiliare con un Uβ riferito ai suoi assets di 0,60, al variare del leverage finanziario e con l'aliquota fiscale fissa del 27,5% otteniamo:

Leverage
0.00
0.25
0.50
0.75
1.00
1.50
2.00
LB
0.6000
0.7088
0.8175
0.9263
1.0350
1.2525
1.4700

con un Cost of Equity che varia di conseguenza:

RFree
1.00%






MRP
5.00%






LB
0.6000
0.7088
0.8175
0.9263
1.0350
1.2525
1.4700
Cost Equity
4.00%
4.54%
5.09%
5.63%
6.18%
7.26%
8.35%

mentre all'aumentare dell'aliquota fiscale con leverage fisso pari a 0,50 (cioè valore del debito pari al valore dell'equity) otteniamo un LB che diminuisce:

tax rate
0.0%
20.0%
40.0%
50.0%
60.0%
70.0%
75.0%
LB
0.9000
0.8400
0.7800
0.7500
0.7200
0.6900
0.6800

Il risultato non sembra coerente col nostro mercato e non mi convince per i seguenti motivi.
Il nostro contesto specifico è stato caratterizzato dalla ricerca esasperata del leverage per ottenere un maggior return sull'equity. Negli ultimi anni, complice la crisi economica, tale leverage esasperato ha portato ad innumerevoli casi di insolvenza finiti in fallimento o congelati in ardite ristrutturazioni del debito. La normativa fiscale italiana limita inoltre il livello di deducibilità degli oneri finanziari per le società. Infine tra gli investitori cresce la presenza di fondi immobiliari, quotati e non, che sono sottoposti a norme fiscali particolari ed hanno un orizzonte temporale diverso da quello degli immobiliaristi.

L'esperienza porta quindi alle seguenti constatazioni: in questo settore il leverage finanziario aumenta sensibilmente il rischio d'impresa, in quanto in un periodo di crisi non vi sono modi di recuperare liquidità se non svendendo gli asset, quindi l'effetto leva porta ad un Lβ ben maggiore di Uβ; l'effetto fiscale, ovvero il beneficio della deducibilità degli oneri finanziari è mitigato dalla normativa e non è così rilevante come matematicamente si ottiene dalla formula. Infine, come bene sanno le banche, il β del debito non è affatto pari a zero e nelle società troppo indebitate i covenant richiesti dalle banche aumentano anche il β dell'equity.

Le soluzioni

Poco soddisfatto della formula base, ho provato ad applicare le altre formule che calcolano il Lβ partendo dall'Uβ: in letteratura ce ne sono almeno sei. I risultati, dal mio punto di vista, chiaramente empirico e focalizzato, non sono del tutto buoni. La formula che mi è sembrata forse più appropriata è quella del metodo “Pratictioners” (Ruback 1995), ovvero:
=Uβ * (1+ D/E)
ove:
= Beta degli asset

In pratica, rispetto alla formula di Damodaran, il metodo “Pratictioners” elimina l'effetto tax shield degli oneri finanziari e così amplifica l'effetto del leverage, che mi sembra coerente con le mie osservazioni di come si comporta il settore. La formula utilizza inoltre come Uβ il β riferito agli asset anziché della società pre leverage, il che mi sembra appropriato visto che la qualità dell'asset sottostante è l'aspetto critico per qualsiasi società immobiliare e possiamo determinarlo in base a caratteristiche quali la location, la qualità dell'intervento, la qualità dell'operatore e dei tenant, ecc. come ben sa chiunque operi nel settore.

Applicando questa formula ad un Uβ del portafoglio immobiliare di 0,60 al variare del leverage finanziario otteniamo:

Leverage
0.00
0.25
0.50
0.75
1.00
1.50
2.00
LB
0.6000
0.7500
0.9000
1.0500
1.2000
1.5000
1.8000

con un Cost of Equity che varia di conseguenza:

RFree
1.00%






MRP
5.00%






LB
0.6000
0.7500
0.9000
1.0500
1.2000
1.5000
1.8000
Cost Equity
4.00%
4.75%
5.50%
6.25%
7.00%
8.50%
10.00%


Il limite evidente in entrambi i metodi esposti, come riportato in dottrina, è l'effetto distorsivo che provocano quando si calcola il Terminal Value, in quanto il valore risultante è amplificato dall'effetto a crescere del leverage finanziario. Ciò è in contraddizione col fatto che le società immobiliari tendono a rimborsare i finanziamenti con le dismissioni di assets e con gli incassi delle locazioni ed il loro leverage finanziario tende quindi a diminuire nel tempo e non a crescere. Per questo, ove si adotti uno di queste due formule ed in particolare la seconda, sarà bene calcolare il Terminal Value senza ricorrere a capitalizzazioni perpetue.

sabato 13 giugno 2015

Sulle responsabilità civili e penali dell'attestatore dei piani di risanamento

Anno dopo anno, pochissime aziende stanno mantenendo le aspettative contenute nei piani di risanamento. Per gli advisor e per il management che li ha redatti e, soprattutto, per i dottori commercialisti che li hanno attestati, potrebbero sorgere responsabilità anche di tipo penale. Vediamo da un punto di vista aziendalistico di quali responsabilità si tratta e di come, almeno per il futuro, possiamo cautelarci.

LA FUNZIONE DELL'ESPERTO NELLE OPERAZIONI SOCIETARIE

Ancorché sia incaricato dall'imprenditore e non nominato dalla Volontaria Giurisdizione del Tribunale come il consulente tecnico d'ufficio, l'esperto ricopre comunque un ruolo pubblicistico, a tutela di interessi generali nel corretto esercizio di impresa e nel buon andamento dell'economia. E' un soggetto che oltre a detenere competenze tecniche deve mantenere l'estraneità ed imparzialità rispetto agli interessi in gioco a salvaguardia di interessi collettivi di tutti gli stakeholders e proprio per questo è prevista una forma di controllo di carattere pubblicistico.

CENNI SULLA RESPONSABILITÀ CIVILISTICA DELL'ESPERTO

L'attestatore è potenzialmente esposto al rischio professionale inerente i danni cagionati col proprio operato.

Nella pratica è difficile pensare ad una azione di responsabilità nei confronti dell'attestatore dei piani di risanamento intrapresa dal management della società o dai suoi soci, ovvero dai committenti che hanno scelto l'esperto attestatore e sono stati responsabili della gestione aziendale nel periodo in cui il piano doveva essere realizzato. In questo caso la responsabilità dell'esperto è di tipo contrattuale nei confronti del committente ed ha termine di prescrizione di dieci anni. Come detto la riterrei ipotesi piuttosto remota: qualche forma di tutela può inoltre essere già inserita dal professionista nel lettera di incarico.

L'azione di responsabilità nei confronti dell'attestatore dei piani di risanamento può assai più verosimilmente prospettarsi qualora i piani siano disattesi con danno a terzi, in particolare ai creditori della società. E' proprio la funzione di tutela dell'esperto nei confronti dei soggetti estranei alla compagine societaria che lo espone alla potenziale richiesta dei danni causati dall'aver attestato un piano che viene totalmente disatteso. L'eventuale azione ha natura extracontrattuale in quanto non c'è un incarico dei creditori all'esperto ed è soggetta ai termini di prescrizione di cinque anni. Se quindi la responsabilità dell'attestatore esiste e permane, il diritto al risarcimento del danno sorge per fatto illecito, ovvero la non veridicità dei dati su cui si fonda il piano e la mancanza dei presupposti per attestarne la fattibilità al tempo in cui il piano è stato attestato.

CENNI SULLA RESPONSABILITÀ PENALE

Per quanto riguarda la responsabilità penale del professionista attestatore, l'articolo 236 bis comma 1 LF come ben noto prevede la reclusione da 2 a 5 anni e la multa da 50.000 a 100.000 euro nel caso in cui la relazione o l'attestazione del professionista esponga informazioni false o ometta di riferire informazioni rilevanti. Tale rilevanza penale sussiste indipendentemente dal fatto che l'attestazione produca o meno un danno ai creditori, che rimane solamente presupposto dell'azione per responsabilità civile.
Ci soffermiamo quindi sui due aspetti a prevalente carattere aziendalistico: la falsità delle valutazioni espresse dall'esperto (esposizione di informazioni false) e/o la loro incompletezza (omissione di informazioni rilevanti).

Per quanto riguarda l'esposizione di informazioni false, l'attestatore risponde delle valutazioni che esprime in quanto siano fondate su premesse contenenti false attestazioni. All'esperto si chiede di vagliare attentamente tutte le informazioni che raccoglie e, qualora ravvisasse elementi di rischio riguardo le informazioni che gli vengono trasmesse, è suo compito approfondire l'analisi sino a quando sia certo che le informazioni che utilizzerà come base dell'attestazione del piano siano chiare, veritiere e complete.

Meno definita dal lato aziendalistico la problematica dell'omissione di informazioni rilevanti: l'aspetto di dolo da parte dell'attestatore risiede verosimilmente nell'aver ignorato informazioni e variabili chiave che influiscono sostanzialmente sulla realizzabilità del piano, informazioni e variabili che determinano rischi che, se conosciuti dal Tribunale e dai creditori, avrebbero verosimilmente portato ad un loro diverso giudizio sul piano stesso. Qui divengono fondamentali le capacità di carattere aziendalistico dell'attestatore: l'esperto deve avere assoluta padronanza dei fattori critici del settore industriale in cui opera l'azienda, deve cioè conoscere ed analizzare sia i drivers dei ricavi che tutti i rischi propri dell'attività, indipendentemente da quanto gli stessi drivers e rischi siano conosciuti ed esplicitati dall'imprenditore, dal management aziendale (di cui, visto lo stato in cui hanno portato l'azienda, forse non sono totalmente consapevoli) e dagli advisor che hanno redatto il piano per conto dell'imprenditore.

Un secondo livello riguarda l'attestazione della fattibilità del piano. Dato per scontato che i dati contabili storici possono essere veri o falsi mentre le previsioni economico finanziarie possono essere solamente attendibili o non verosimili, l'eventuale dolo dell'attestatore potrebbe risiedere nella mancanza di consequenzialità tra le informazioni ed il giudizio espresso in attestazione. Ciò potrebbe avvenire qualora il giudizio sulla fattibilità del piano non fosse coerente con il quadro informativo assunto alla base del piano stesso. I criteri in base al quale viene espresso il giudizio sulla fattibilità devono allora essere di comune accettazione (noi diremmo “secondo best practise”) come quelli espressi dai principi di attestazione del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti Irdec, dai principi di revisione per gli incarichi di attestazione previsti dall'Isae, e devono essere chiaramente esposti così da essere ripercorribili e verificabili.
Attesa la correttezza del quadro informativo e della metodologia assunta, la falsità delle valutazioni sussiste solamente in presenza di imperizia nel gestire i processi valutativi o nel caso di consapevole e dolosa divergenza da parte dell'attestatore nell'applicarli.
La responsabilità penale in ogni caso richiede un aspetto di dolo da parte dell'esperto, una collusione di fatto con gli interessi dell'imprenditore a danno tipicamente dei creditori.

ANCORA SULLE METODOLOGIE AZIENDALISTICHE DA SEGUIRE

Torno quindi su raccomandazioni di tipo metodologico: la raccolta e verifica che i dati aziendali siano completi e veritieri è un primo passo necessario ma ben lungi dall'essere considerato sufficiente per sollevare da rischi l'attestatore. A nostro parere si limitano i rischi di una eventuale azione di responsabilità se le previsioni espresse dall'esperto emergono in base ad un intero processo valutativo, come ad esempio il seguente:
  • l'analisi del piano deve avere un approccio verticale, che parte cioè dalle dimensioni e dal trend di sviluppo previsto per il settore industriale di appartenenza dell'azienda, verificato da fonti, studi e ricerche ufficiali e redatte da enti esterni all'azienda, che devono essere citate con precisione e possibilmente allegate al piano (banalmente, acquistare uno studio di settore e dedicare mezz'ora presso l'ufficio studi di Confindustria a cui fa capo il settore dell'azienda ci permette di conoscere aspetti e tendenze che l'imprenditore potrebbe non comunicarci);
  • tutte le metodologie utilizzate devono essere ben conosciute, applicate secondo best practise, ben illustrate facendo riferimento ai principi italiani o internazionali utilizzati (evitiamo di trovarci in un domani a giustificare un modello di valutazione che non abbia riferimenti o addirittura il non aver applicato alcun modello);
  • lo svolgimento dell'analisi deve seguire metodologie rigorose, tracciate e facilmente ripercorribili da chi legge il rapporto (come per l'impairment test, le conclusioni sono conseguenza precisa delle ipotesi ed il processo deve essere ripercorribile passo dopo passo da chi legge l'attestazione);
  • è indispensabile poi effettuare la “sensitivity analysis” del piano a diversi scenari, effettuare cioè una forma di stress test che permette di quantificare gli scostamenti dal piano base come conseguenza di una diversa evoluzione delle variabili chiave su cui detto piano è basato (anche qui, banalmente, stimiamo che succede al piano se il cambio euro/dollaro, o il costo dell'energia, o i tassi di interesse, o qualche input rilevante per quell'azienda non andrà come previsto dall'imprenditore nel piano base);
  • le considerazioni finali dell'attestatore devono essere infine perfettamente coerenti con le risultanze del processo di analisi che è stato seguito.


mercoledì 10 giugno 2015

Riprendere ad investire


Siamo nel 2015 e dopo sette anni di ... carestia si vede qualche timido segnale di possibile inversione di tendenza. La speranza è che la ripresa economica europea trainata da euro debole, petrolio a buon mercato e ampia disponibilità di finanza faccia da traino all'economia domestica italiana. Senza una ripresa dei redditi e dei consumi interni la ripresa in Italia sarà però circoscritta ad i settori ad alto export, comunque poca cosa rispetto al PIL complessivo del paese. Perché per ripartire bisogna avere prima investito nello sviluppo e in Italia sono anni che che nessuno, o quasi, investe più nulla. Parliamo allora di investimenti strategici come condizione base per lo sviluppo.

Crisi economica e credit crunch hanno indotto sia il settore privato che quello pubblico ad una politica di tagli: anno dopo anno il settore privato ha tagliato (in ordine non casuale) pubblicità, ricerca e sviluppo, investimenti, consulenze, sedi secondarie, strutture di staff, impianti e relativo personale, linee di prodotti non core, in pratica tutto. Il settore pubblico ha tagliato gli investimenti e le spese esternalizzate, ben attento a non effettuare alcuna spending review su aree ad alto impatto politico e sulle spese di casta. Gli investimenti che permettono lo sviluppo sono stati comunque ridotti in entrambi i casi e sono rimasti circoscritti nell'ambito di poche aziende di eccellenza in relativamente pochi settori industriali.

Il problema è che la mancanza di investimenti non ha solamente ridotto la capacità produttiva, peraltro già sensibilmente ridimensionata dalla chiusura di innumerevoli aziende, ma ha anche ridotto la capacità competitiva dell'industria italiana rispetto all'industria dei paesi nostri concorrenti. Non abbiamo solo perso posti di lavoro e capacità produttiva che sarà difficilissimo ripristinare, abbiamo anche perso tempo e capacità competitiva.

Per illustrare la problematica possiamo rifarci al noto articolo “Protect Strategic Expenditures” di Kaplan e Norton pubblicato sull'Harvard Business Review nel dicembre 2008. Con notevole lungimiranza e consapevoli del tremendo periodo di crisi che ci stava aspettando, gli autori suggerivano alle aziende di segregare contabilmente in un budget di spesa autonomo rispetto alla gestione ordinaria tutti gli investimenti di tipo strategico che non dovevano essere tagliati anche nel pieno della crisi, perché investimenti indispensabili alla sopravvivenza dell'azienda (noi diremmo indispensabili “alla continuità aziendale”).

In pratica suggerivano di distinguere gli investimenti a carattere produttivo, quelli comunemente chiamati Capital Expenditures o CapEx, dagli investimenti strategici, per i quali, da bravi americani, hanno subito inventato un acronimo, StratEx. I primi rimanevano sotto il controllo del management e potevano essere oggetto di spending review, i secondi dovevano essere gestiti da un manager che rispondeva direttamente al CEO ed al CDA ed avere un proprio budget separato e protetto. Negli StratEx rientrano sia investimenti di tipo tecnico che di R&D, nonché tutti i progetti suoi nuovi prodotti che l'azienda stava studiando per il futuro. Gli StratEx sono quindi investimenti soprattutto in competenze e non solo in macchinari. Ciò che va protetta è la capacità dell'azienda di avere prodotti e processi d'avanguardia e migliori rispetto alla concorrenza. Secondo gli autori, in tempi di crisi possiamo tagliare pure quello che riguarda il passato ma dobbiamo preservare ciò che sarà alla base del nostro futuro. In pratica Kaplan e Norton suggerivano di fare ciò che fa qualsiasi contadino, ma detto dai guru di Harvard suona meglio. Non a caso è esattamente il contrario rispetto alle scelte della politica economica Italiana ma questa è un'altra storia.

Atteso che in Italia in tempo di crisi poche aziende hanno investito per proteggere il proprio futuro, cosa possiamo fare adesso? Credo che possiamo solo metterci a correre.

A livello di Paese serve una politica economica chiara: investimenti massicci su pochi settori che possano fungere da volano per la ripartenza economica generale, come turismo e beni culturali, opere pubbliche (strade, scuole, idrosistema, porti ed aeroporti), reti informatiche, energia green da agricoltura.


A livello aziendale, bisogna sfruttare quel poco di finanza disponibile presso le banche e sul mercato finanziario internazionale per finanziare forti investimenti di StratEx sulla creazione di una nuova generazione di prodotti che colmi in fretta il gap di 8 anni di eutanasia industriale. 

martedì 19 novembre 2013

La spending review nelle PMI che ristrutturano il debito


Negli ultimi tre anni vi è stato un utilizzo intensivo di operazioni di ristrutturazione del debito, concordato preventivo, di art. 67 e art. 182 bis LF: possiamo trarre le prime conclusioni, che non sempre sono positive. Molte, troppe aziende hanno utilizzato le nuove normative della LF per comprare tempo senza però risolvere i propri problemi industriali e limitandosi ad una spending review aziendale che non ha risolto i problemi. Cosa non ha funzionato e cosa si può (ancora) fare.



Imparare dai successi e dagli insuccessi


Per attuare tutto questo occorre però attuare cambiamenti nell'azienda, cosa che gli imprenditori della PMI di succcesso fanno abitualmente, altri meno ma possono, devono, provarci.

Ad oggi (alla fine del 2013), le nuove normative della LF sono state utilizzate da un rilevante numero di aziende e possiamo iniziare a rilevare in quali casi la ristrutturazione del debito, oltre a causare licenziamenti di personale ed ingenti perdite a fornitori e banche, ha almeno permesso di salvare la continuità aziendale. Per quanto possano valere conclusioni a volte affrettate, mi sembra che i casi di turnaround aziendale di successo vertano su due fattori comuni: focalizzazione del business su pochi prodotti di successo ed una quota di fatturato all'export superiore al 60% del fatturato totale. Considerando che la domanda interna in Italia è attesa debole anche nel 2014, la soluzione rimane la stessa. Il problema è capire perchè molte PMI non siano riuscite a rilanciare l'attività nonostante abbiano fruito di una rilevante moratoria finanziaria.

Il problema non è (quasi) mai finanziario

Come non ci stanchiamo di dire e scrivere, il problema delle PMI italiane non è la scarsità del credito bancario e la crisi finanziaria. Ovviamente un'ampia disponibilità di credito e la fine della crisi internazionale gioverebbe ma il problema più profondo è un'altro: è la mancanza di competitività a livello internazionale. Le PMI che competono e si affermano a livello internazionale trovano infatti credito anche nell'attuale fase di difficoltà. Oggi nel mondo finanziario vi sono immensi capitali in affannosa ricerca di buoni investimenti. Il rilancio della competitività richiede investimenti aziendali mirati e risparmi nelle aree non strategiche. Credo che qualcosa si possa ancora fare, intervenendo con una nuova “spending review” su tre aree aziendali, quelle sulle quali ci siamo ritrovati a dedicare buona parte della nostra attività presso le PMI.

La spending review ed i tagli lineari

La prima area riguarda la politica generale della “spending review” ed i tagli lineari. Tutti siamo concordi nel criticare i tagli lineari nella pubblica amministrazione, vorremmo tagli selettivi agli sprechi ed ai costi che non generano utilità alla popolazione e vorremmo maggior spesa pubblica nell'erogazione di servizi di maggior qualità ai cittadini. La spending review deve essere selettiva, non abbiamo dubbi. Eppure anche nelle aziende private, quelle gestite da piccoli imprenditori che sicuramente non sprecano i propri soldi, i tagli non sono stati affatto selettivi: l'imprenditore ha tagliato i costi dove era più facile farlo e non dove serviva. Ha tagliato la pubblicità, la ricerca e l'innovazione, le collaborazioni esterne, quella parte del personale che le norme hanno reso licenziabile. Non c'è stato un ripensamento dell'organizzazione, c'è stato solo l'alleggerimento di chi butta a mare ciò che trova intorno a sè, persone comprese, nella speranza di non affondare. Cosa proponiamo invece? Proponiamo di pensare a quale debba essere la struttura organizzativa più funzionale ai due obiettivi di base, cioè avere pochi prodotti ad alta competitività internazionale e vendere molto di più all'estero su mercati nuovi. Interveniamo allora con una spending review completamente diversa da quella dei tagli, che cerca le professionalità all'interno dell'azienda e le valorizza impiegandole su questi obiettivi. Investe quindi sul know-how ed esternalizza invece tutto il resto, creando una struttura snella e flessibile che permetta di crescere senza investimenti organizzativi aggiuntivi.

Il capitale circolante

La seconda area riguarda il capitale circolante. Il problema finanziario che le PMI hanno temporaneamente risolto avvalendosi delle normative introdotte con l'art 67 o il 182 bis della LF non si ripropone nuovamente solo introducendo una diversa gestione del capitale circolante: contabilità per commessa, assicurazione dei crediti, gestione degli ordinativi considerando la solvibilità de clienti ed i flussi di cassa più che i margini sul venduto, in pratica introducendo nuove procedure in un'area della gestione aziendale di cui l'imprenditore raramente si preoccupa. La quantità di risorse finanziarie che l'azienda stessa può creare attraverso una diversa gestione del capitale circolante è molto più rilevante rispetto all'ammontare delle risorse finanziarie aggiuntive che possono provenire da nuove linee bancarie.

L'utilizzo della tecnologia

La terza area riguarda l'utilizzo della tecnologia. Il mondo attuale offre un'immensa tecnologia di prodotto e di processo, facilmente disponibile, che la PMI italiana spesso ignora totalmente. Con la tecnologia oggi è possibile monitorare puntualmente ciò che viene fatto in azienda, dai fornitori, dai clienti, in modo da apportare costanti miglioramenti ed accorgimenti. Sapere in remoto quando un prodotto sta per rompersi permette di intervenire presso il cliente prima che questo lo debba riparare o sostituire magari chiamando un concorrente. Programmare la logistica coi satellitari permette di risparmiare tempo e kilometri. Il problema è che le informazioni ed il modo di trattarle in modo proficuo tramite le nuove tecnologie ci sono, pochi sanno però usarle: il knowledge management è indispensabile alla PMI che voglia utilizzare le proprie risorse in modo produttivo.

martedì 29 ottobre 2013

Emissione di minibond, come fare?

I minibond del decreto sviluppo dovrebbero essere la soluzione che permette alle PMI di superare il credit-crunch, é il prodotto finanziario che piace alle imprese (che così trovano nuova finanza non bancaria) ma piace anche alle banche (che magari si alleggeriscono di qualche credito di troppo) e forse piace anche agli investitori istituzionali (che di BTP e dintorni ne hanno ... a sufficienza). Su cosa siano e come funzionino i minibond c'è già scritto di tutto, noi invece vediamo concretamente come fare.

Analisi iniziale di fattibilità
La PMI interessata a finanziarsi emettendo queste obbligazioni “minibond” per prima cosa deve verificare se ha le caratteristiche minimali richieste quanto a adeguatezza patrimoniale / reddituale e merito di credito, se cioè viene giudicata sufficientemente affidabile dai potenziali investitori. Il requisito amministrativo è semplice: la PMI deve avere l'ultimo bilancio sottoposto a revisione da parte di soggetto autorizzato. Sono verifiche semplici e veloci, se ci sono i requisiti si procede, se mancano si rimanda all'anno prossimo.

Scegliersi un financial advisor
Il fai-da-te è impensabile: contattare direttamente i broker finanziari, le banche e gli investitori è impresa ardua per le grandi imprese quotate che hanno una direzione finanziaria ben strutturata e diventa un incubo per una PMI che cerca finanza per 5 milioni di euro. La PMI interessata ad effettuare una emissione di minibond può allora contattare i vari financial advisor (come noi ed i nostri colleghi) e sceglierne uno che gestisca tutto il processo.

Cosa fa il financial advisor
Il financial advisor verifica che vi siano i requisiti di base per l'emissione dei minibond, prepara il business e financial plan della PMI, redige l'information memorandum di presentazione, definisce la tipologia di bond da emettere per far fronte alle necessità finanziarie dell'azienda (ammontare, tipo, durata, cedola, tasso, ecc.) e redige un prospetto dell'emissione, gestisce i rapporti con la banca arranger (la banca che gestirà i flussi finanziari) e col dealer che collocherà i bond presso gli investitori professionali in Italia ed all'estero, gestisce infine la domanda di ammissione alla quotazione dei minibond sull'apposito segmento di Borsa Italiana.

Quanto costa?
L'emissione di minibond è apparentemente carissima: i costi fissi “upfront” (cioè da sostenere a prescindere dal successo dell'emissione dei minibond) sono rilevanti specialmente se l'emissione è di importo limitato, le fees su tutto il processo sembrano oltraggiose, il tasso sui bond è ovviamente più elevato rispetto ad un mutuo ipotecario. Ma allora? L'emissione di minibond ha però molti vantaggi non trascurabili: le condizioni rimangono fisse per tutta la durata (quindi se la durata è di cinque anni, non ci sono sorprese, rinegoziazioni dei tassi, richiesta di rientro ecc.), il costo è all-inclusive (sembra alto, ma provate a paragonarlo col costo VERO dei finanziamenti bancari, con calcolo dei giorni valuta, di tutte le commissioni aggiuntive, ecc. : il “tasso nominale” di una linea di credito è una cosa ma il costo vero è un'altra), infine l'azienda emittente alleggerisce l'utilizzo delle linee bancarie e migliora la propria posizione in centrale rischi, il che significa ottenere condizioni migliori su tutte le linee bancarie che vengono utilizzate. Quindi una fonte di finanziamento per la PMI stabile e certo a medio termine, su un canale alternativo rispetto a quello bancario, ad un costo non molto superiore al credito delle banche, sempre che tale credito sia disponibile.

Hai una PMI? Conosci delle PMI? Chiedici come EqS Equity Studio può aiutare nell'emissione di minibond!

domenica 29 settembre 2013

Il Marchio nell'Industria Alberghiera

Uno degli aspetti chiave nella gestione alberghiera è quello del label: se, quando e soprattutto quanto sia opportuno “brandizzare” un albergo con un marchio internazionale. Le grandi catene alberghiere ovviamente ci dicono che un hotel con il label famoso sull'insegna si riempie di più e a un prezzo più alto rispetto all'albergo unbranded, il che giustificherebbe l'elevato costo di affiliazione per l'utilizzo del loro marchio. Ma è così?

Il valore del label per un hotel
L'utilizzo di un label di una catena alberghiera affermata si può ottenere con varie tipologie contrattuali; oltre al label sull'insegna la catena in realtà può fornire una vasta gamma di servizi, sia commerciali che operativi, che indubbiamente aiutano la gestione della struttura alberghiera. Il vantaggio più immediato che si ricerca affiliandosi ad una catena affermata è però la capacità di attrarre una clientela più ampia e più selezionata di quella raggiungibile dall'hotel direttamente, in special modo nei periodi di bassa stagione. Inoltre l'albergo affiliato fa proprie l'immagine di qualità ed affidabilità contenute nel marchio, cosa che implica anche la possibilità di applicare prezzi più alti. Il label indica al cliente il posizionamento: per individuare da quale label un hotel otterrà il maggior beneficio economico è quindi fondamentale distinguere trai diversi label disponibili e scegliere il più adeguato alla struttura alberghiera in oggetto. La scelta non è affatto banale. Innanzi tutto vediamo due aspetti del label: il valore proprio nell'ambito dell'industria alberghiera ed il valore del marchio anche al di fuori del settore dell'ospitalità. Iniziamo da quest'ultimo, ovvero dal valore del label “di per sé” anche al di fuori del settore alberghiero.

Il valore al di fuori dell'industria dell'ospitalità
Il primo aspetto riguarda il livello di differenziazione che viene apportata dal label. Vi sono label, tipicamente quelli del settore fashion, che danno una forte caratterizzazione a tutti i loro prodotti, che siano abbigliamento, occhiali, profumi od ... hotel. Il messaggio è semplice e chiaro: se sei un cliente che apprezza i prodotti con questo label, sicuramente apprezzerai l'albergo creato apposta attorno allo stesso concept. Oltre al settore fashion vi sono altri marchi che si sono affermati in altri settori e che sono cresciuti allargando il portafoglio prodotti al di fuori del loro prodotto iniziale e l'utilizzo nel settore alberghiero ne rappresenta una naturale evoluzione, come pure vi sono hotel “a tema” che utilizzano il marchio di una attrazione locale (dal parco giochi alle terme). Dal punto di vista dell'hotel è evidente il vantaggio ed il limite di una brandizzazione così estrema. Tutto l'hotel, dalla struttura immobiliare agli arredi, al servizio, alla tipologia di offerta sono focalizzati su un unico concept: quello viene promesso, quello è, punto. In questo momento c'è molta euforia sulla brandizzazione estrema di fascia alta, ma personalmente credo che sia appropriata solo per pochi e ben selezionati casi.

Il valore dei marchi alberghieri
Non trattiamo ovviamente del valore dei marchi in assoluto, ma quale valore possono avere per un potenziale nuovo hotel affiliato. La domanda è quanto conta il marchio nella scelta dell'hotel effettuata da parte del cliente.
Vi sono situazioni nelle quali il marchio è indubbiamente importante: quando viaggio per lavoro e devo recarmi in una città all'estero che non conosco e su cui ho poche indicazioni e devo fermarmi una notte o due al massimo, allora non ho tempo (né interesse) a cercare l'albergo più adatto ai miei gusti e scelgo una catena alberghiera con cui mi trovo generalmente bene. Il marchio è rassicurante, riduce i rischi, si sa cosa si compra. Ovvio quindi che le grandi catene alberghiere dominino il settore business a 4 stelle e le località d'affari dei paesi emergenti.
Quando però la scelta dell'albergo è rilevante nella motivazione del viaggio, tipicamente nel viaggio leisure, allora il cliente va a cercare qualcosa di preciso e dedica alla scelta dell'hotel tutto il tempo necessario. In questo caso il label dell'hotel è comunque garanzia di professionalità ma conta meno rispetto a recensioni e raccomandazioni (anche se le recensioni internettiane sono spesso poco veritiere), salvo che sia un marchio specializzato proprio in ciò che vogliamo. Per questo le catene stanno facendo notevoli sforzi per segmentare l'offerta trai propri brand, cercando un difficile equilibrio tra l'aspirazione a definire mirati target di clientela leisure con la necessità di fare volumi propria dei grandi operatori internazionali. Sul valore aggiunto fornito da ciascun label alberghiero c'è infatti molto da discutere.

martedì 24 settembre 2013

Capitale industriale per l'azienda

Per far fronte ai competitors del mondo globalizzato l'azienda deve avere rilevanti risorse umane, tecnologiche e finanziarie: mission impossible per le piccole aziende industriali italiane? Non proprio, se proviamo a focalizzarci sul capitale industriale dell'azienda. Vediamo come l'advisor aiuta l'impresa in tre mosse più una.

Uno: Identificare qual'è il capitale dell'azienda
Il primo passo è capire qual'è il vero capitale dell'azienda. Non intendiamo qui il capitale sociale ma la capacità distintiva, ciò che caratterizza l'azienda rispetto alle aziende che svolgono più o meno la stessa attività. La specificità va cercata nella visione dell'imprenditore, nel prodotto, nel processo produttivo, nella tipologia di clientela, nel marchio, ecc., negli elementi base del fare impresa. Non è così semplice: a volte l'imprenditore afferma che il suo prodotto è migliore rispetto ai concorrenti ma non riesce a venderlo ad un prezzo più alto, anzi fa fatica anche a venderlo ad un prezzo medio. Diremmo allora che il prodotto è migliore secondo i suoi parametri di produttore ma forse non crea per il cliente un beneficio tale da giustificarne la scelta anche se costa di più. Il ruolo dell'advisor in questa fase è cercare la risposta dai clienti: perchè i clienti preferiscono affidarsi a questa azienda piuttosto che ai suoi concorrenti? O perchè preferiscono i concorrenti? Quali caratteristiche vengono premiate dal cliente con un prezzo maggiore? Come si fa ad offrire un prodotto che generi più vantaggi al cliente?

Due: Mantenere il capitale industriale nel tempo
Definita qual'è (o quale dovrebbe essere) la specificità d'impresa che crea capitale industriale, il primo obiettivo è capire come migliorarla costantemente nel tempo e come difenderla dai tanti competitors. L'azienda mantiene il capitale industriale con gli investimenti, con nuove idee, nuove persone, nuove tecnologie, insomma investendo molte risorse. La risposta la si ritrova quindi nella ... domanda: quanto sta investendo quest'anno l'azienda per migliorare il suo capitale industriale rispetto l'anno passato?

Tre: Sfruttare il capitale industriale al meglio
Definito qual'è il capitale industriale e come farlo crescere, devo però utilizzarlo al meglio, devo sfruttarlo su un mercato il più ampio possibile in modo che il vantaggio competitivo si concretizzi anche in un beneficio economico, che potrà essere condiviso tra l'azienda, i dipendenti e i clienti. Spesso occorre andare oltre al mercato locale, troppo ristretto perchè generi il livello di margine economico necessario alla continuità aziendale. Occorre allora trovare il modo di ampliare il mercato di sbocco anche a mercati non tradizionali.

Più uno: Come realizzo questi obiettivi?
Sin qui tutto facile, banale, già visto. Ma come si fa? Ovviamente il “come” dipende dal settore economico, dalle caratteristiche dell'impresa, dalle specificità del territorio ove si opera, ecc.. C'è però una costante che rimane valida quasi sempre: l'azienda realizza questi obiettivi più velocemente e con minor costo se, invece di sforzarsi a realizzare tutto al proprio interno, ricorre a delle aziende Partner in Italia e all'estero. Come advisor d'impresa io sono ormai dell'idea che la piccola impresa deve mantenere gelosamente al proprio interno il suo know-how caratteristico, cioè il segreto del suo capitale industriale ma deve invece fare partnership su tutto il resto ed in tutto il mondo. Per questo ormai non dedichiamo più tanto tempo ad approfondire il "come” fare ma piuttosto collaboriamo con le imprese sul “con chi” farlo. Dalle competenze di gestione dei meccanismi interni all'impresa passiamo alle competenze di gestione dei rapporti esterni. Funziona.