martedì 19 novembre 2013

La spending review nelle PMI che ristrutturano il debito


Negli ultimi tre anni vi è stato un utilizzo intensivo di operazioni di ristrutturazione del debito, concordato preventivo, di art. 67 e art. 182 bis LF: possiamo trarre le prime conclusioni, che non sempre sono positive. Molte, troppe aziende hanno utilizzato le nuove normative della LF per comprare tempo senza però risolvere i propri problemi industriali e limitandosi ad una spending review aziendale che non ha risolto i problemi. Cosa non ha funzionato e cosa si può (ancora) fare.



Imparare dai successi e dagli insuccessi


Per attuare tutto questo occorre però attuare cambiamenti nell'azienda, cosa che gli imprenditori della PMI di succcesso fanno abitualmente, altri meno ma possono, devono, provarci.

Ad oggi (alla fine del 2013), le nuove normative della LF sono state utilizzate da un rilevante numero di aziende e possiamo iniziare a rilevare in quali casi la ristrutturazione del debito, oltre a causare licenziamenti di personale ed ingenti perdite a fornitori e banche, ha almeno permesso di salvare la continuità aziendale. Per quanto possano valere conclusioni a volte affrettate, mi sembra che i casi di turnaround aziendale di successo vertano su due fattori comuni: focalizzazione del business su pochi prodotti di successo ed una quota di fatturato all'export superiore al 60% del fatturato totale. Considerando che la domanda interna in Italia è attesa debole anche nel 2014, la soluzione rimane la stessa. Il problema è capire perchè molte PMI non siano riuscite a rilanciare l'attività nonostante abbiano fruito di una rilevante moratoria finanziaria.

Il problema non è (quasi) mai finanziario

Come non ci stanchiamo di dire e scrivere, il problema delle PMI italiane non è la scarsità del credito bancario e la crisi finanziaria. Ovviamente un'ampia disponibilità di credito e la fine della crisi internazionale gioverebbe ma il problema più profondo è un'altro: è la mancanza di competitività a livello internazionale. Le PMI che competono e si affermano a livello internazionale trovano infatti credito anche nell'attuale fase di difficoltà. Oggi nel mondo finanziario vi sono immensi capitali in affannosa ricerca di buoni investimenti. Il rilancio della competitività richiede investimenti aziendali mirati e risparmi nelle aree non strategiche. Credo che qualcosa si possa ancora fare, intervenendo con una nuova “spending review” su tre aree aziendali, quelle sulle quali ci siamo ritrovati a dedicare buona parte della nostra attività presso le PMI.

La spending review ed i tagli lineari

La prima area riguarda la politica generale della “spending review” ed i tagli lineari. Tutti siamo concordi nel criticare i tagli lineari nella pubblica amministrazione, vorremmo tagli selettivi agli sprechi ed ai costi che non generano utilità alla popolazione e vorremmo maggior spesa pubblica nell'erogazione di servizi di maggior qualità ai cittadini. La spending review deve essere selettiva, non abbiamo dubbi. Eppure anche nelle aziende private, quelle gestite da piccoli imprenditori che sicuramente non sprecano i propri soldi, i tagli non sono stati affatto selettivi: l'imprenditore ha tagliato i costi dove era più facile farlo e non dove serviva. Ha tagliato la pubblicità, la ricerca e l'innovazione, le collaborazioni esterne, quella parte del personale che le norme hanno reso licenziabile. Non c'è stato un ripensamento dell'organizzazione, c'è stato solo l'alleggerimento di chi butta a mare ciò che trova intorno a sè, persone comprese, nella speranza di non affondare. Cosa proponiamo invece? Proponiamo di pensare a quale debba essere la struttura organizzativa più funzionale ai due obiettivi di base, cioè avere pochi prodotti ad alta competitività internazionale e vendere molto di più all'estero su mercati nuovi. Interveniamo allora con una spending review completamente diversa da quella dei tagli, che cerca le professionalità all'interno dell'azienda e le valorizza impiegandole su questi obiettivi. Investe quindi sul know-how ed esternalizza invece tutto il resto, creando una struttura snella e flessibile che permetta di crescere senza investimenti organizzativi aggiuntivi.

Il capitale circolante

La seconda area riguarda il capitale circolante. Il problema finanziario che le PMI hanno temporaneamente risolto avvalendosi delle normative introdotte con l'art 67 o il 182 bis della LF non si ripropone nuovamente solo introducendo una diversa gestione del capitale circolante: contabilità per commessa, assicurazione dei crediti, gestione degli ordinativi considerando la solvibilità de clienti ed i flussi di cassa più che i margini sul venduto, in pratica introducendo nuove procedure in un'area della gestione aziendale di cui l'imprenditore raramente si preoccupa. La quantità di risorse finanziarie che l'azienda stessa può creare attraverso una diversa gestione del capitale circolante è molto più rilevante rispetto all'ammontare delle risorse finanziarie aggiuntive che possono provenire da nuove linee bancarie.

L'utilizzo della tecnologia

La terza area riguarda l'utilizzo della tecnologia. Il mondo attuale offre un'immensa tecnologia di prodotto e di processo, facilmente disponibile, che la PMI italiana spesso ignora totalmente. Con la tecnologia oggi è possibile monitorare puntualmente ciò che viene fatto in azienda, dai fornitori, dai clienti, in modo da apportare costanti miglioramenti ed accorgimenti. Sapere in remoto quando un prodotto sta per rompersi permette di intervenire presso il cliente prima che questo lo debba riparare o sostituire magari chiamando un concorrente. Programmare la logistica coi satellitari permette di risparmiare tempo e kilometri. Il problema è che le informazioni ed il modo di trattarle in modo proficuo tramite le nuove tecnologie ci sono, pochi sanno però usarle: il knowledge management è indispensabile alla PMI che voglia utilizzare le proprie risorse in modo produttivo.

martedì 29 ottobre 2013

Emissione di minibond, come fare?

I minibond del decreto sviluppo dovrebbero essere la soluzione che permette alle PMI di superare il credit-crunch, é il prodotto finanziario che piace alle imprese (che così trovano nuova finanza non bancaria) ma piace anche alle banche (che magari si alleggeriscono di qualche credito di troppo) e forse piace anche agli investitori istituzionali (che di BTP e dintorni ne hanno ... a sufficienza). Su cosa siano e come funzionino i minibond c'è già scritto di tutto, noi invece vediamo concretamente come fare.

Analisi iniziale di fattibilità
La PMI interessata a finanziarsi emettendo queste obbligazioni “minibond” per prima cosa deve verificare se ha le caratteristiche minimali richieste quanto a adeguatezza patrimoniale / reddituale e merito di credito, se cioè viene giudicata sufficientemente affidabile dai potenziali investitori. Il requisito amministrativo è semplice: la PMI deve avere l'ultimo bilancio sottoposto a revisione da parte di soggetto autorizzato. Sono verifiche semplici e veloci, se ci sono i requisiti si procede, se mancano si rimanda all'anno prossimo.

Scegliersi un financial advisor
Il fai-da-te è impensabile: contattare direttamente i broker finanziari, le banche e gli investitori è impresa ardua per le grandi imprese quotate che hanno una direzione finanziaria ben strutturata e diventa un incubo per una PMI che cerca finanza per 5 milioni di euro. La PMI interessata ad effettuare una emissione di minibond può allora contattare i vari financial advisor (come noi ed i nostri colleghi) e sceglierne uno che gestisca tutto il processo.

Cosa fa il financial advisor
Il financial advisor verifica che vi siano i requisiti di base per l'emissione dei minibond, prepara il business e financial plan della PMI, redige l'information memorandum di presentazione, definisce la tipologia di bond da emettere per far fronte alle necessità finanziarie dell'azienda (ammontare, tipo, durata, cedola, tasso, ecc.) e redige un prospetto dell'emissione, gestisce i rapporti con la banca arranger (la banca che gestirà i flussi finanziari) e col dealer che collocherà i bond presso gli investitori professionali in Italia ed all'estero, gestisce infine la domanda di ammissione alla quotazione dei minibond sull'apposito segmento di Borsa Italiana.

Quanto costa?
L'emissione di minibond è apparentemente carissima: i costi fissi “upfront” (cioè da sostenere a prescindere dal successo dell'emissione dei minibond) sono rilevanti specialmente se l'emissione è di importo limitato, le fees su tutto il processo sembrano oltraggiose, il tasso sui bond è ovviamente più elevato rispetto ad un mutuo ipotecario. Ma allora? L'emissione di minibond ha però molti vantaggi non trascurabili: le condizioni rimangono fisse per tutta la durata (quindi se la durata è di cinque anni, non ci sono sorprese, rinegoziazioni dei tassi, richiesta di rientro ecc.), il costo è all-inclusive (sembra alto, ma provate a paragonarlo col costo VERO dei finanziamenti bancari, con calcolo dei giorni valuta, di tutte le commissioni aggiuntive, ecc. : il “tasso nominale” di una linea di credito è una cosa ma il costo vero è un'altra), infine l'azienda emittente alleggerisce l'utilizzo delle linee bancarie e migliora la propria posizione in centrale rischi, il che significa ottenere condizioni migliori su tutte le linee bancarie che vengono utilizzate. Quindi una fonte di finanziamento per la PMI stabile e certo a medio termine, su un canale alternativo rispetto a quello bancario, ad un costo non molto superiore al credito delle banche, sempre che tale credito sia disponibile.

Hai una PMI? Conosci delle PMI? Chiedici come EqS Equity Studio può aiutare nell'emissione di minibond!

domenica 29 settembre 2013

Il Marchio nell'Industria Alberghiera

Uno degli aspetti chiave nella gestione alberghiera è quello del label: se, quando e soprattutto quanto sia opportuno “brandizzare” un albergo con un marchio internazionale. Le grandi catene alberghiere ovviamente ci dicono che un hotel con il label famoso sull'insegna si riempie di più e a un prezzo più alto rispetto all'albergo unbranded, il che giustificherebbe l'elevato costo di affiliazione per l'utilizzo del loro marchio. Ma è così?

Il valore del label per un hotel
L'utilizzo di un label di una catena alberghiera affermata si può ottenere con varie tipologie contrattuali; oltre al label sull'insegna la catena in realtà può fornire una vasta gamma di servizi, sia commerciali che operativi, che indubbiamente aiutano la gestione della struttura alberghiera. Il vantaggio più immediato che si ricerca affiliandosi ad una catena affermata è però la capacità di attrarre una clientela più ampia e più selezionata di quella raggiungibile dall'hotel direttamente, in special modo nei periodi di bassa stagione. Inoltre l'albergo affiliato fa proprie l'immagine di qualità ed affidabilità contenute nel marchio, cosa che implica anche la possibilità di applicare prezzi più alti. Il label indica al cliente il posizionamento: per individuare da quale label un hotel otterrà il maggior beneficio economico è quindi fondamentale distinguere trai diversi label disponibili e scegliere il più adeguato alla struttura alberghiera in oggetto. La scelta non è affatto banale. Innanzi tutto vediamo due aspetti del label: il valore proprio nell'ambito dell'industria alberghiera ed il valore del marchio anche al di fuori del settore dell'ospitalità. Iniziamo da quest'ultimo, ovvero dal valore del label “di per sé” anche al di fuori del settore alberghiero.

Il valore al di fuori dell'industria dell'ospitalità
Il primo aspetto riguarda il livello di differenziazione che viene apportata dal label. Vi sono label, tipicamente quelli del settore fashion, che danno una forte caratterizzazione a tutti i loro prodotti, che siano abbigliamento, occhiali, profumi od ... hotel. Il messaggio è semplice e chiaro: se sei un cliente che apprezza i prodotti con questo label, sicuramente apprezzerai l'albergo creato apposta attorno allo stesso concept. Oltre al settore fashion vi sono altri marchi che si sono affermati in altri settori e che sono cresciuti allargando il portafoglio prodotti al di fuori del loro prodotto iniziale e l'utilizzo nel settore alberghiero ne rappresenta una naturale evoluzione, come pure vi sono hotel “a tema” che utilizzano il marchio di una attrazione locale (dal parco giochi alle terme). Dal punto di vista dell'hotel è evidente il vantaggio ed il limite di una brandizzazione così estrema. Tutto l'hotel, dalla struttura immobiliare agli arredi, al servizio, alla tipologia di offerta sono focalizzati su un unico concept: quello viene promesso, quello è, punto. In questo momento c'è molta euforia sulla brandizzazione estrema di fascia alta, ma personalmente credo che sia appropriata solo per pochi e ben selezionati casi.

Il valore dei marchi alberghieri
Non trattiamo ovviamente del valore dei marchi in assoluto, ma quale valore possono avere per un potenziale nuovo hotel affiliato. La domanda è quanto conta il marchio nella scelta dell'hotel effettuata da parte del cliente.
Vi sono situazioni nelle quali il marchio è indubbiamente importante: quando viaggio per lavoro e devo recarmi in una città all'estero che non conosco e su cui ho poche indicazioni e devo fermarmi una notte o due al massimo, allora non ho tempo (né interesse) a cercare l'albergo più adatto ai miei gusti e scelgo una catena alberghiera con cui mi trovo generalmente bene. Il marchio è rassicurante, riduce i rischi, si sa cosa si compra. Ovvio quindi che le grandi catene alberghiere dominino il settore business a 4 stelle e le località d'affari dei paesi emergenti.
Quando però la scelta dell'albergo è rilevante nella motivazione del viaggio, tipicamente nel viaggio leisure, allora il cliente va a cercare qualcosa di preciso e dedica alla scelta dell'hotel tutto il tempo necessario. In questo caso il label dell'hotel è comunque garanzia di professionalità ma conta meno rispetto a recensioni e raccomandazioni (anche se le recensioni internettiane sono spesso poco veritiere), salvo che sia un marchio specializzato proprio in ciò che vogliamo. Per questo le catene stanno facendo notevoli sforzi per segmentare l'offerta trai propri brand, cercando un difficile equilibrio tra l'aspirazione a definire mirati target di clientela leisure con la necessità di fare volumi propria dei grandi operatori internazionali. Sul valore aggiunto fornito da ciascun label alberghiero c'è infatti molto da discutere.

martedì 24 settembre 2013

Capitale industriale per l'azienda

Per far fronte ai competitors del mondo globalizzato l'azienda deve avere rilevanti risorse umane, tecnologiche e finanziarie: mission impossible per le piccole aziende industriali italiane? Non proprio, se proviamo a focalizzarci sul capitale industriale dell'azienda. Vediamo come l'advisor aiuta l'impresa in tre mosse più una.

Uno: Identificare qual'è il capitale dell'azienda
Il primo passo è capire qual'è il vero capitale dell'azienda. Non intendiamo qui il capitale sociale ma la capacità distintiva, ciò che caratterizza l'azienda rispetto alle aziende che svolgono più o meno la stessa attività. La specificità va cercata nella visione dell'imprenditore, nel prodotto, nel processo produttivo, nella tipologia di clientela, nel marchio, ecc., negli elementi base del fare impresa. Non è così semplice: a volte l'imprenditore afferma che il suo prodotto è migliore rispetto ai concorrenti ma non riesce a venderlo ad un prezzo più alto, anzi fa fatica anche a venderlo ad un prezzo medio. Diremmo allora che il prodotto è migliore secondo i suoi parametri di produttore ma forse non crea per il cliente un beneficio tale da giustificarne la scelta anche se costa di più. Il ruolo dell'advisor in questa fase è cercare la risposta dai clienti: perchè i clienti preferiscono affidarsi a questa azienda piuttosto che ai suoi concorrenti? O perchè preferiscono i concorrenti? Quali caratteristiche vengono premiate dal cliente con un prezzo maggiore? Come si fa ad offrire un prodotto che generi più vantaggi al cliente?

Due: Mantenere il capitale industriale nel tempo
Definita qual'è (o quale dovrebbe essere) la specificità d'impresa che crea capitale industriale, il primo obiettivo è capire come migliorarla costantemente nel tempo e come difenderla dai tanti competitors. L'azienda mantiene il capitale industriale con gli investimenti, con nuove idee, nuove persone, nuove tecnologie, insomma investendo molte risorse. La risposta la si ritrova quindi nella ... domanda: quanto sta investendo quest'anno l'azienda per migliorare il suo capitale industriale rispetto l'anno passato?

Tre: Sfruttare il capitale industriale al meglio
Definito qual'è il capitale industriale e come farlo crescere, devo però utilizzarlo al meglio, devo sfruttarlo su un mercato il più ampio possibile in modo che il vantaggio competitivo si concretizzi anche in un beneficio economico, che potrà essere condiviso tra l'azienda, i dipendenti e i clienti. Spesso occorre andare oltre al mercato locale, troppo ristretto perchè generi il livello di margine economico necessario alla continuità aziendale. Occorre allora trovare il modo di ampliare il mercato di sbocco anche a mercati non tradizionali.

Più uno: Come realizzo questi obiettivi?
Sin qui tutto facile, banale, già visto. Ma come si fa? Ovviamente il “come” dipende dal settore economico, dalle caratteristiche dell'impresa, dalle specificità del territorio ove si opera, ecc.. C'è però una costante che rimane valida quasi sempre: l'azienda realizza questi obiettivi più velocemente e con minor costo se, invece di sforzarsi a realizzare tutto al proprio interno, ricorre a delle aziende Partner in Italia e all'estero. Come advisor d'impresa io sono ormai dell'idea che la piccola impresa deve mantenere gelosamente al proprio interno il suo know-how caratteristico, cioè il segreto del suo capitale industriale ma deve invece fare partnership su tutto il resto ed in tutto il mondo. Per questo ormai non dedichiamo più tanto tempo ad approfondire il "come” fare ma piuttosto collaboriamo con le imprese sul “con chi” farlo. Dalle competenze di gestione dei meccanismi interni all'impresa passiamo alle competenze di gestione dei rapporti esterni. Funziona.

mercoledì 24 aprile 2013

Aggregazione, internazionalizzazione ed Equity per la PMI

Nonostante la crisi economica molte imprese italiane ce la fanno: crescono, guadagnano, non hanno problemi finanziari. Come fanno?

Me too
Recentemente ho avuto modo di incontrare diverse PMI che, nonostante la feroce recessione, vanno bene e vogliono sfruttare la forte posizione competitiva per crescere ancora di più. Indipendentemente dal settore in cui operano, queste aziende hanno alcune “semplici” caratteristiche in comune, che adesso vediamo. Credo che ogni PMI dovrebbe provare a fare come loro. Dopotutto ho sempre pensato che non ci sia nulla di male nel copiare, semprechè si copi da uno bravo e che non se ne ha a male. Se poi, dopo aver copiato, ci mettiamo qualcosa del nostro, funziona anche meglio. In Inglese si dice “me-too” che suona meglio rispetto a “copiare”.

Un solo prodotto leader
Le PMI di successo non hanno un grande portafoglio prodotti, hanno un unico prodotto leader col quale realizzano la maggior parte del proprio fatturato e margine operativo ed attorno al quale ruota l'intera azienda. La crescita aziendale deriva dalla crescita del prodotto leader, tutte le risorse dell'azienda sono focalizzate nel migliorare il prodotto leader perché non vi sia dubbio da parte del cliente che quello è il migliore sul mercato. La focalizzazione aiuta le scelte del management: ciò che serve a migliorare la posizione competitiva del prodotto leader si fa, tutto il resto si taglia.
Aggregazione
Visto che la crescita interna con le proprie forze non può bastare allora la PMI di successo cresce mediante l'aggregazione con altre aziende, come può essere un'acquisizione per ampliare la rete di vendita, una JV con un produttore estero, una partnership focalizzata su un mercato lontano. L'aggregazione non è facile per il piccolo imprenditore italiano, abituato a far da sé, ma l'aggregazione con altre imprese oggi è una costante di pressoché tutti i casi di successo delle PMI.

Internazionalizzazione
Ho incontrato PMI che vendono in 50 paesi nel mondo, una arriva a 90 paesi diversi. L'azienda che ha investito tutto nella realizzazione di un prodotto deve poi venderlo a chiunque nel mondo sia disposto a comprarlo e si sa gli acquirenti oggi non sono solo nei mercati tradizionali. L'internalizzazione della struttura organizzativa è molto di più dell'internazionalizzazione del processo di vendita: significa personalizzare il prodotto secondo i bisogni di una clientela molto eterogenea e fornire servizio ed assistenza, significa prendersi cura del cliente nel suo paese, capendo e rispettando la sua cultura. L'internazionalizzazione di oggi non ha nulla a che vedere con quella delle multinazionali del passato, anzi é l'opposto.

Investimenti di processo
Un prodotto leader richiede il miglior processo di produzione possibile: le aziende che oggi hanno successo non hanno smesso di investire nonostante la crisi. Processo significa sia macchinari aggiornati che soprattutto tecnici giovani e preparati, capaci di implementare modelli organizzativi di produzione d'avanguardia. Dove? In Italia, solo in Italia, il luogo col miglior capitale umano al mondo.

Equity
Aggregazione, internazionalizzazione, processo: tutto questo richiede fonti finanziarie importanti e stabili, cioè capitale di rischio (“Equity”) e non finanziamenti, che si sa, generano oneri finanziari e debbono essere restituiti puntualmente. Il rifornimento di risorse finanziarie di Equity può avvenire dai soci attuali, da nuovi partner industriali o dal Venture Capital / Private Equity. In ogni caso la PMI di successo si dà da fare per trovare adeguato “Equity” per realizzare ciò che serve e non ripone il suo futuro nelle mani del sistema bancario.

Troppo facile? Parliamone! Scrivi ad info@eqst.it.

martedì 26 marzo 2013

Il passaggio generazionale nelle imprese familiari

Pare che tre quarti delle aziende italiane non sopravvivano al proprietario, quindi, fatti due conti sull'avanzare dell'età degli imprenditori, nel prossimo decennio la maggioranza delle nostre piccole e medie imprese è a rischio chiusura. Perdita di capitale economico e di capitale umano in un contesto sociale ove alla distruzione del tessuto economico vecchio non corrisponde una parallela creazione di un tessuto economico nuovo. Come possiamo reagire?

Il cosiddetto passaggio generazionale è ovviamente un problema sociale oltre che economico ed è dirompente nel mondo artigianale e professionale, ma anche nelle piccole imprese a carattere familiare con qualche decina di dipendenti nelle quali il fare impresa coincide con la persona che la guida. La soluzione non è mantenere in vita una vecchia impresa senza il suo imprenditore, ma far sì che questa impresa evolva con persone diverse verso un nuovo modello imprenditoriale. Il percorso che si potrebbe seguire è il seguente.

Prevedere il passaggio con largo anticipo: chiunque, artigiano o piccolo imprenditore, si renda conto di avere un problema di passaggio generazionale deve pensarci prima. Visto che non è facile, meglio avere tempo per verificare le scelte sul campo, senza l'assillo di dovere trovare la soluzione subito. Gli aspetti fiscali, societari e successori sono inoltre sempre complessi e richiedono soluzioni ben studiate ed articolate. 
 
Trasformarsi in società di capitali: le società personali non si vendono e non si tramandano, per la cessione d'azienda occorre trasformare la società in Srl, con una separazione netta tra la sfera economica della famiglia e quella aziendale. Occorre anche attrezzare una contabilità aziendale ben organizzata.

Separare gli immobili dall'attività aziendale: la proprietà di uffici, di capannoni, di qualsiasi cespite immobiliare è bene sia separata dall'attività commerciale e industriale, anche rimanendo nell'orbita della famiglia. Questo agevola il subentro di un nuovo socio nell'attività aziendale in quanto diminuisce il valore dell'operazione, che così rimane più semplice e più mirata. L'azienda poi riconoscerà un canone di locazione al proprietario immobiliare. Oggi si può effettuare una scissione senza conseguenze fiscali, né positive né negative. Facciamolo.

Uscire dalla logica familiare: l'azienda non è un bene statico da lasciare in successione ai figli. A parte rari casi di grande successo, spesso nel passaggio generazionale ho visto subentrare eredi con scarsa competenza specifica e scarso entusiasmo, quasi costretti a continuare l'attività aziendale, con risultati deludenti per l'azienda e per le persone stesse. Meglio scegliere il successore in base al merito, fuori dall'ambito familiare, fuori dal contesto in cui operiamo, qualcuno che abbia la stessa capacità e la motivazione che aveva l'imprenditore trent'anni fa. Meglio per l'azienda, per le persone e anche per gli eredi, che con la cessione d'azienda avranno risorse da investire in attività più mirate alla propria vocazione.

Troviamo una persona che possa affiancare l'imprenditore e poi subentrargli. Potrebbe essere un ex manager che, dopo le esperienze in aziende più complesse, ha adesso voglia di fare qualcosa in proprio su una realtà più piccola, oppure un giovane con relativamente pochi anni di esperienza ma pieno di grinta ed entusiasmo. Una persona che non deve limitarsi a continuare il business attuale ma che parte da questa attività valorizzandone i contenuti per poi sviluppare una nuova impresa diversa dalla precedente e più adatta al mercato di domani. Se è una persona non appartenente al nucleo famigliare più ristretto allora i rapporti interpersonali sono più lineari e le aspettative reciproche sono chiare. Infine se mai il progetto dovesse non andare in porto, non si creano inutili attriti all'interno della famiglia.

Aiutiamo la cessione d'azienda con i termini di pagamento: se organizziamo il subentro in modo graduale allora possiamo anche organizzare una struttura fnanziaria nella quale chi subentra potrà pagare l'azienda anno dopo anno con i suoi utili, anche senza dover ricorrere alle banche.

sabato 23 febbraio 2013

I corporate bond decreto sviluppo 83/12

L'approvazione del decreto 179 del 18 ottobre 2012 convertito nella L 221 del 17 dicembre 2012
(Decreto Sviluppo) ha perfezionato alcuni aspetti del precedente Decreto 83 del 22 giugno 2012 di fatto aprendo un nuovo mercato finanziario, quello dei corporate bonds per le aziende non quotate. Vediamo di cosa si tratta.

Il problema è sempre stato la fiscalità
Se le aziende italiane dipendono disperatamente dal sistema bancario per l'approvvigionamento di finanza è (anche) dovuto ad un sistema fiscale che favorisce smaccatamente il credito bancario rispetto alla raccolta di fondi tramite bonds: gli interessi alle banche sono deducibili e non hanno ritenute d'acconto, quelli sui bonds hanno limiti dimensionali all'emissione, limiti alla deducibilità ed una ritenuta del 20%, partita persa per i bonds e, adesso che le banche sono in crisi, partita persa per tutti.

Le novità
Col decreto sviluppo si prova a mettere una pezza. Se a sottoscrivere i bonds è un investitore qualificato ed i bonds sono quotati su un mercato regolamentato, anche fuori dall'Italia, allora non si applicano limiti i dimensionali nè di deducibilità della thin-cap e non si applica la ritenuta (con poche eccezioni peraltro condivisibili). In pratica una società di capitali, anche una srl, può raccogliere finanza da investitori emettendo bonds senza penalizzazioni fiscali, anche senza essere quotata in borsa.

Chi sono gli investitori e cosa chiedono
Adesso la cosa passa al mercato: di aziende che hanno bisogno di finanza e pronte ad emettere bonds in Italia ne abbiamo molte, ma chi sono gli investitori istituzionali disposti ad acquistarli? Gli investitori sono tipicamente soggetti che per loro natura raccolgono più fondi di quanti ne debbano spendere immediatamente: i fondi pensione (non l'INPS, ma questa è un'altra storia) le compagnie di assicurazione, e qualche soggetto fortunato (petrolio, family office). Questi investitori sono disposti a sottoscrivere i corporate bonds italiani? Certo che sì, specie adesso che il rischio Italia è percepito meno rilevante, purchè a determinate condizioni: le dimensioni dell'investimento devono essere tali da giustificare il tempo ed il costo necessario per analizzare la bontà dell'azienda italiana, deve essere garantita una sufficiente liquidabilità dei bonds, cioè la possibilità di eventualmente rivenderli sul mercato come qualsiasi altro titolo che acquistano abitualmente in borsa.

Quali aziende possono emettere corporate bonds
Di conseguenza l'ammontare dell'emissione deve essere elevata, diciamo di almeno 150-200 milioni di Euro, così ogni investitore ne può acquistare per diversi milioni di Euro e il mercato secondario sul quale i bonds vengono quotati rimane attivo. Un'emissione di bonds di questo ammontare richiede aziende di dimensioni coerenti: il fatturato non conta, l'EBITDA cioè il margine operativo lordo dell'azienda deve essere di almeno 40-50 milioni (in modo da avere un rapporto bond/ebitda di 3/4 volte), altrimenti l'emissione non regge.

Conclusioni
In conclusione, ottimo il decreto ma il numero di aziende non quotate che avranno accesso al mercato dei corporate bonds è assai limitato rispetto alle necessità del sistema Italia. Per rendere l'emissione di corporate bonds fruibile ad aziende di medie dimensioni occorre creare strumenti che coprano il divario dimensionale tra emittenti italiani troppo piccoli ed investitori istituzionali internazionali troppo grandi. Non facile.